UA-33189693-1

martedì 12 febbraio 2013

La Palude


 

Camminava lungo il sentiero dentro quella giungla asciutta, e silenziosa senza sapere come ci fosse arrivato. Aveva solo un vago ricordo di quando era partito. Un ricordo confuso che gli annebbiava la mente.
Non si aspettava che fosse così, la giungla. Ricordava di averla sognata molte volte. Un sogno ripetuto e ricorrente. Nel sogno era una giungla umida, silenziosa e calda come un ventre materno. Essenza di un habitat primordiale dove vita e morte si contendevano il destino delle creature che l'abitavano.
E invece no, lì dove si trovava era tutto diverso. La realtà - pensò - non è mai come la immaginiamo, può solo avvicinarsi ma sono poi i dettagli a fare la differenza.
Percorreva il sentiero costeggiando un fiume rosso, scuro come il sangue rappreso di una ferita, che tagliava a metà la foresta lussureggiante, incredulo per il silenzio che l'avvolgeva. Nemmeno il fiume parlava da fiume.
Si sforzò di ricordare cosa l'avesse spinto ad arrivare fino a lì, ma non ci riuscì. C'era qualcosa di più oltre il semplice bisogno di isolarsi, di dare un taglio netto al suo passato senza voltarsi indietro.
Liberare la mente dai ricordi, dalle incomprensioni, dalle speranze di una vita trasformate in illusioni. La voglia di guardare avanti senza fare progetti e mettere distanza fra sé e il mondo. Era forse per questo che si trovava lì?
Si ritrovò a pensare che se un viaggio ha un inizio allora ogni viaggio deve avere una fine.
Cercò di ricordare l'inizio di quel viaggio. Doveva per forza esserci un inizio.
Dai ricordi confusi emerse il giorno in cui aveva radunato in uno zaino quei pochi oggetti che avessero ancora un significato. L' orologio di suo padre, un quaderno di appunti, le foto dei suoi figli, qualche semplice indumento di ricambio e null'altro.
Il bagaglio doveva essere leggero - pensò - perché i ricordi pesano sempre come macigni e già gli bastavano quelli che portava nel cuore.
Continuava a camminare come se il tempo si divertisse a mischiare passato e presente in un vortice silenzioso di immagini, tralasciando con cura il futuro. Vide i suoi strumenti, le musiche che aveva amato e suonato, i suoi libri.
Un biglietto appeso ad una porta prima di chiudersela alle spalle, era l'ombra passeggera di un ricordo. Pensò che le parole per dirsi addio non sono mai abbastanza, tanto valeva usarne poche e di quelle giuste.
Sentì lo stomaco contorcersi al pensiero che non sarebbe mai più tornato.
Un rumore di foglie lo riportò al presente.
Qualcosa si era mosso veloce nel sottobosco rigoglioso, seguito da un sordo rantolio che sapeva di selvaggio. Proseguì il cammino su per il sentiero che iniziava a salire, abbandonando il fiume al suo lento destino. Aveva perso la cognizione del tempo.
L'immagine fugace di un giaguaro vista da qualche parte, forse all'aeroporto gli attraversò i ricordi mescolandosi a un brusio di voci in una lingua che amava, in un vortice di volti sconosciuti dal sorriso triste. Ricordò il senso di libertà che quei volti gli avevano restituito.
Pochi passi ancora e il sentiero si inerpicò ripido su per la montagna, in un intrico di rami e radici, rendendo difficoltosa la marcia.
Fu lì che lo vide per la prima volta. A una decina di metri davanti a lui un giaguaro lo stava fissando acquattato sul terreno.
Si fermò in attesa di capire cosa fare. Quando si decise a muovere un passo, il giaguaro si dileguò nella boscaglia con un balzo.
Le grosse radici degli alberi avevano inghiottito il sentiero e faticava a risalire. Il terreno era diventato umido e scivoloso e la sensazione di essere osservato non lo abbandonava, come se sentisse gli occhi della belva sul collo. La volta degli alberi si chiudeva alta sopra la sua testa, come arcate di una cattedrale verde e silenziosa. Chiusa in quel silenzio mistico, la giungla contemplava se stessa sprofondando in una scura penombra tagliata da fendenti di luce.
Si rinfrescò il viso immergendo le mani in un rivolo d'acqua che scendeva a valle. Quando si rialzò, una vecchia indios, bassa di statura, con una fascia rossa in fronte a fermare lucidi capelli neri, lo guardava immobile e silenziosa. Il corpo nudo dipinto d'argilla rossastra, la rendevano simile a una statua animata. La pelle raggrinzita dei seni che pendevano flaccidi e il ventre coperto da un cintura di foglie.
Gli parlò in una lingua arcana che non riusciva a comprendere.
Pensò ad un'ennesima visione ascoltando le parole che la donna ripeteva come un'antica nenia. Tornò a sciacquarsi il viso ma quando riaprì gli occhi la donna era scomparsa nel nulla.
Al suo posto trovò un amuleto. Una piccola mano intagliata nel legno nero, con un cordino di corteccia intrecciata. Lo raccolse e se lo mise al collo.
Riprese la marcia tenendo stretto fra le dita l'amuleto come a provare a se stesso di non essere solo un sogno dentro nel sogno. Ogni passo diventava sempre più faticoso.
La foresta immobile e silenziosa lo stava osservando. Come un essere pensante seguiva i passi di quell'intruso senza opporre resistenza.
Vinto dalla fatica si rannicchiò nell'incavo di un grande albero, abbandonandosi al sonno.
I ricordi di una vita correvano veloci nella sua mente, al pari di nuvole spazzate dal vento. Si rivide bambino correre disperato verso la luce inseguito da una lunga mano nera che lo schiacciava al suolo accompagnato dalle urla disperate della madre che non riuscivano a bucare quel silenzio che lo circondava, proprio come in quella giungla.
Il tempo si era spezzato con la stessa fragilità di un ramo secco. Nel sonno si tastava il petto in cerca del talismano mentre un grosso uccello nero si cibava del suo cuore con la voracità di un rapace, colorando di rosso le piume della sua coda. Un urlo si soffocò in gola alla vista di quella scena.
Non riusciva a respirare. Incerto tra sogno e realtà fissava l'uccello squarciargli il petto. Avvertiva il suo corpo rigido e freddo con un senso crescente di angoscia incapace di muovere un solo muscolo.
Quando riaprì gli occhi, l'incubo era svanito in una nuvola di polvere nera che vorticava davanti al suo sguardo. Fece appena in tempo a vedere la sagoma della vecchia che si dileguava tra il fogliame.
Decise di inseguirla arrancando tra gli alberi che opponevano resistenza come gendarmi messi apposta per impedirgli di raggiungerla.
Più si avvicinava alla donna e più gli ostacoli si sovrapponevano di continuo.
La rivide ferma e immobile che lo fissava dalla parte opposta di un acquitrino sul quale regnava un acre odore di morte. L'acqua era bassa e stagnante, scura come la pece, simile a una fanghiglia maleodorante dalla quale emergevano spuntoni di alberi in putrefazione. Una leggera coltre di nebbia lambiva la superficie della palude. La donna incensava l'aria di ceneri gettandole al vento salmodiando la sua nenia come una sacerdotessa.
Quella voce lo richiamava annullando la sua volontà di resistere. Entrò nell'acquitrino affondando già fino al tallone nel fango. Procedette a fatica ma il peso del corpo lo faceva sprofondare sempre di più.
"Maledizione... sabbie mobili.." Si ricordò solo in quel momento del suono della sua voce come fosse ritornata alla mente dopo un viaggio millenario nel silenzio.
Per la prima volta si sentì perso, smarrito, senza alcuna volontà.
La vecchia indios lo osservava dal lato opposto della palude. Sollevò in aria una nuvola di polvere e poi sparì.
Era sprofondato fino alla cintola e il solo movimento di respirare aumentava la sensazione di affondare più velocemente nel fango. Di lì a poco la palude sarebbe stata la sua tomba.
Pensò ad un oscuro sortilegio lanciatogli dalla vecchia. L'uccello dell'incubo prima, ora la palude. Doveva solo trovare la forza di svegliarsi.
Sentì il sapore della terra sulle labbra. Il respiro farsi sempre più pesante. Una forza lenta e massiccia lo trascinava verso il fondo. Il fango gli impediva di respirare. Sollevò le braccia al di sopra della melma fetida che lo inghiottiva. Trattenne il fiato con il nero spettro della morte negli occhi, con la speranza che se di incubo si trattava, sarebbe svanito al risveglio.
Si risvegliò nudo in una capanna di frasche. Disteso su una stuoia tremava per la febbre. A fatica aprì gli occhi alla voce di un vecchio che gli segnava una croce con le dita sulla fronte. Delirava privo di forze, lasciandosi respirare dalla terra sulla quale era disteso. Bevve qualcosa che non era acqua dalla ciotola che il vecchio gli porse sulle labbra.

L'aveva salvato appena in tempo e ora lo stava curando. Le notti e i giorni sfilavano sopra la volta della foresta, finché piovve per una notte intera.
Le gocce erano fredde e pungenti come aghi. Le sentiva sul corpo simili a punture di spillo e suo malgrado non riuscì a ricordare un sonno migliore di quello dentro il quale sprofondò.
L'indomani la capanna era vuota. Del vecchio non c'era altra traccia se non la ciotola dalla quale aveva bevuto. Bevve quel poco che gli aveva lasciato.

Non ricordava il sapore del cibo e nemmeno quando avesse mangiato l'ultima volta. Si sentiva stanco, spossato, malgrado il sonno. Non aveva più nulla, né vestiti, né zaino.
Il sentiero era scomparso. La direzione smarrita. La foresta che lo circondava aveva perso il senso di immobilità con il quale l'aveva accolto.
La sua percezione era cambiata. La sentiva respirare. Sentiva il fruscio degli alberi, il lieve soffiare del vento, i versi lontani degli uccelli. Si faceva largo tra il fogliame aiutandosi con le mani sanguinanti ma si sentiva vivo.
Davanti all'ignoto - pensò - devi essere disposto a guardarlo nel profondo, o l'ignoto ti inghiottirà.
Aveva ritrovato il sentiero o forse semplicemente qualunque sentiero era quello giusto da seguire. La sensazione di essere osservato cresceva a ogni suo passo verso quella meta sconosciuta. Era solo, eppure non si sentiva ancora completamente solo.
Alle sue spalle il giaguaro lo seguiva tenendosi a distanza protetto dalla boscaglia. Era diventato la sua ombra silenziosa.
Non doveva cedere alla paura - si disse - scacciando il pensiero della sconfitta.
Si fermò e attese. Sapeva che l'avrebbe incontrato di nuovo. Quella prima fugace apparizione era stata l'inizio di tutto. Rivederlo sarebbe stata la fine di quell'incubo, in un modo o nell'altro.
Il giaguaro sbucò dalla boscaglia come se avesse accettato la sfida che l'uomo gli lanciava. Il suo passo era lento e sicuro. Lo guardò senza alcuna espressione negli occhi e si fermò. Il suo rantolio incuteva timore.
Si stavano fronteggiando. Sapeva che l'animale non gli avrebbe dato tregua. Non c'era via di scampo e nemmeno la fuga l'avrebbe salvato. Le sue mani erano l'unica arma che poteva brandire. Il suo coraggio era l'unica forza che gli rimaneva. Indietreggiò di un passo.
Quello era il segnale che il giaguaro aspettava per lanciare il suo attacco.
Lo vide gettarsi in una corsa possente. Le zampe affondavano sicure nel terreno prendendo velocità. Con un balzo l'animale gli fu sopra. Era quello l'attimo in cui doveva rimanere lucido.
Era di una forza disarmante quando lo afferrò per le spalle, lasciandosi cadere all'indietro per attutire l'impatto così violento del peso della bestia. Respirava l'aria che usciva dalle sue fauci con un sordo rantolio.
Lottò con la disperazione dei vinti, di chi non ha più niente da perdere.
Le unghie dell'animale gli incidevano la carne, ma le mani stringevano il suo collo senza allentare la presa. La lotta era impari e l'esito incerto. Con un ultimo disperato sforzo strinse i pollici fino a sentire la carotide spezzarsi, fino a che la belva cadde a peso morto su di lui.
Riprese conoscenza con ancora il corpo del giaguaro che lo sovrastava. Quando si rialzò aveva ripreso a bruciare per la febbre. Si guardò le ferite.
Il sangue rappreso disegnava il suo corpo come un dipinto di un martire.
Ora sapeva che doveva trovare solo la fine del viaggio e avrebbe trovato la pace che cercava.  
Le nuvole passavano veloci sopra il tetto della foresta. Da lontano una cascata riversava nuvole di vapore sulle rocce sottostanti. Era così alta che solo un angelo avrebbe potuto raggiungerla. Quando arrivò ai suoi piedi, l'aria era un turbinio umido che gli bagnava la pelle e i capelli. Sollevò lo guardo al cielo e capì che era quasi giunto alla meta che stava cercando.
Sapeva che non sarebbe stato facile raggiungere la cima del monte.
Gli alberi che ne ricoprivano le pareti sembravano una selva inestricabile, ma non poteva arrendersi, non ora. Toccò il talismano e iniziò a salire aggrappandosi ai rami. Il rumore della cascata si faceva più intenso mentre saliva. Come un rombo di un tuono scuoteva gli alberi e la roccia con il suo maglio poderoso.
Arrivò in cima al sorgere del sole. Le nuvole basse al di sotto del monte ricoprivano tutta la giungla.
Attese che si fece giorno, lavandosi nell'acqua rossastra. L'aria aveva ancora il profumo della notte. Guardava la giungla sottostante perdersi a vista d'occhio. Gli alberi grandi come formiche avevano perso la loro imponenza.
Con calma entrò nel greto del torrente che alimentava la cascata.
Era quella la fine del viaggio. Era quella la porta dell'ignoto che doveva varcare. Arrivò fino al bordo sulle rocce levigate dalle acque e spalancò le braccia. Inspirò a pieni polmoni l'aria fresca del giorno che stava crescendo e tutto gli fu chiaro. Affrontare l'ignoto del mondo, vuol dire affrontare l'ignoto che sta dentro di te - pensò - fosse anche che il fine ultimo è la morte.
Strappò via l'amuleto affidandolo alle acque. Chiuse gli occhi e si lasciò cadere nel vuoto aprendo le braccia per cercare l'aria come un uccello.
Sentì l'aria venirgli incontro veloce, fresca e tagliente come la lama di un rasoio, con la sensazione di non aver più corpo e si sentì leggero, finalmente in pace, finalmente libero di volare. E si svegliò.