UA-33189693-1

giovedì 30 maggio 2013

Caminito




"Donde vas Caminito. Donde vas en la via tocando el cielo con un dedo? Donde vas Caminito..."

Caminito era un vecchio pittore cieco. Quasi tutte le sere lo si poteva incontrare nel locale di Rosario Aguilar in via de La Reunion, nel quartiere Recoleta a Buenos Aires. Si chiamava Ricardo Lagos, ma tutti lo chiamavano el Caminito.  Sembra strano a dirsi ma era un pittore, ed era cieco.
Arrivava canticchiando con la sua voce un po'  roca, accompagnato dal ticchettio del suo bastone bianco sui ciottoli della via, quasi tutte le sere con un quadro sottobraccio. Uno solo, tranne la domenica. La domenica no, diceva, perché se "Dio non lavorava la domenica allora lui non era da meno".
Quando arrivava c'era sempre un posto riservato per lui. Una poltroncina in vimini coi braccioli ricoperti di pelle consunta, appena fuori l'ingresso.
Posava il panama bianco sul tavolino, e poi sistemava il quadro vicino alle inferiate della finestra dietro le sue spalle. Ordinava sempre un amaro e restava a guardare la gente che passava.  Così diceva, "a guardare la gente che passava".
Si tratteneva fino a tarda notte o fino a quando qualcuno non gli avesse comprato il quadro, poi se ne andava sempre canticchiando. Aveva all'incirca un'ottantina d'anni.
Nel quartiere ormai era un personaggio noto e amato da tutti, soprattutto dalle donne.
Lo incontrai la prima volta in era una calda sera di ottobre dopo un concerto del mio amico violinista Ugo Raimondi. Ero arrivato a Buenos Aires da un paio di settimane, e avevo preso alloggio in un appartamentino di due stanze nel quartiere di San Telmo.  Fu lui che mi parlò di Caminito, l'uomo che dipingeva il cielo con un dito.
Quella sera entrando nel locale poco prima di rincasare mi ero fermato a osservare il suo quadro, in silenzio.
Il quadro aveva qualcosa di banale e di tragico nella sua semplicità, nelle pennellate che muovevano le nuvole sopra un cielo azzurro chiaro. C'era qualcosa di strano che mi colpiva ma non riuscivo a capire cosa. Ti spiazzava.
"È il cielo sopra Santa Maria de Los Buenos Aires" disse avvertendo la mia presenza e forse il mio stupore. "Se lo vuol comprare, faccia lei il prezzo."
Risposi che se avessi avuto con me abbastanza soldi l'avrei fatto volentieri,  scusandomi per il mio spagnolo ancora impacciato.
"Nulla al mondo è perfetto... nemmeno Dios è perfetto..." rispose invitandomi a sedere con lui con l'aria consumata di chi era abituato a trattare con ogni tipo persona.
Parlava lentamente, con calma, con le mani poggiate al pomolo del bastone da passeggio e ti fissava come fanno i ciechi. Forse perché gli occhi di un cieco ti guardano come se ti scavassero dentro, fatto sta che questa cosa mi ha sempre creato disagio.
Aveva mani asciutte, scarne e curate. Sul volto un'espressione assorta  dalla quale traspariva un sorta di indifferenza per tutto ciò che lo circondava.
Mi raccontò che aveva perso la vista all'età di quindici anni a causa di un'orribile infezione ai bulbi oculari. Si erano spenti prima uno e poi l'altro, come due lampadine bruciate, lasciandogli solo delle ombre vaghe e indefinite.
Non fu facile superare quel momento in cui luce e buio si erano dichiarati guerra all'improvviso gettandolo nella disperazione di un'adolescenza bruciata nel fiore degli anni. La delusione nel vedere scomparire quell'unica speranza che gli avevano lasciato i medici era seconda sola alla delusione di aver visto il mondo spegnersi in quel modo.
"I miei occhi erano fatti per vedere, Talos! Ma si sono spenti come la fiamma di una candela al vento!"
Si intuiva ancora un velo di sofferenza dietro quelle parole pronunciate con un sorriso amaro, anche se ora a distanza di tanti anni, alla soglia della vecchiaia, la speranza nutrita in gioventù aveva lasciato il posto a una rassegnata accettazione della sua condizione.
Mi raccontò che la notte sognava ancora di vedere il mondo come lo aveva sempre visto, a colori vivaci e sgargianti. Era il suo modo di continuare a vedere ciò che stava oltre quella barriera fatta solo di suoni, voci e rumori senza una forma precisa. E di buio.
Per lui il mondo era come sentire la voce di un bella donna che non puoi vedere.  "Sai che esiste - mi disse -  È lì fuori e lo senti che ti gira attorno e non puoi fare altro che immaginarlo, il mondo. Immagini le sue forme, il suo viso, i suoi capelli, le sue tette. Capisci? Hai mai provato a immaginare le tette del mondo?"
Aveva uno spiccato senso dell'ironia davanti al quale era impossibile restare indifferenti.
Raccontò che osservare il cielo era la sua passione fin da piccolo.  "Il cielo di giorno! " precisò. Disteso su un prato con le braccia dietro la nuca poteva osservare le nuvole passare per intere giornate. Guardava le forme che disegnavano, il loro muoversi e danzare nell'aria come tante ninfee in movimento in un stagno azzurro di un cielo terso, o nel grigiore di un temporale, o nelle sfumature viola di un tramonto. Pensava che fosse fin troppo facile incantarsi di fronte alla Stella del Sud o alla via lattea, provare un brivido davanti all'immensità delle galassie, cosa che lui non disprezzava affatto - ribadì con puntiglio - ma il cielo di giorno restava per lui una fonte inesauribile di ispirazione. 

Amava dipingere. E dipingeva il cielo con le dita, non coi pennelli.
"I pennelli sono per gli incapaci" disse ridacchiando per la battuta.
Aveva imparato a creare tutte le sfumature di azzurro e di grigio quando ancora aveva la vista, ed era affascinato dalle forme delle nuvole. Mai uguali, sempre diverse, sempre in movimento. 
"Hai una vaga idea di quante forme disegnano le nuvole su un cielo qualsiasi, con qualsiasi tempo, Talos?"
Risposi che in realtà non avevo mai fatto caso più di tanto, se non in rare occasioni.
"Nessuno guarda più il cielo di giorno, ormai. Tutti vanno troppo di fretta, per alzare la testa. È il guaio di questo mondo. E invece c'è molto da imparare dalle nuvole."
Conosceva il cielo di giorno come nessun altro. Lo vedeva nei suoi ricordi di gioventù e ancora oggi lo riconosceva dal profumo che aveva il vento o dal calore del sole, mi disse.
"Il vento e le nuvole sono come due amanti che sanno di sesso. Non hanno bisogno di vedersi. Si riconoscono a pelle. E io riconosco il cielo come riconoscevo la mia donna. È così! Lo sento."
Lo ascoltavo in silenzio in quel suo modo di trascinarti nel suo mondo pieno di metafore e dal modo con cui aveva pronunciato quelle parole intuii che la donna di cui parlava doveva essere il suo grande amore, ma non disse  altro di lei quella sera.
Da ragazzino i compagni di scuola lo chiamavano lo strano, per quel suo modo di essere indifferente al tempo e allo spazio, sempre con lo sguardo al cielo come se aspettasse qualcosa da un momento all'altro, prima che la cecità lo relegasse in una solitudine profonda.
Gli amici se ne erano andati uno dopo l'altro già dall'epoca della scuola. Nessuno aveva interesse a giocare con un cieco, mi raccontò.
Non dipingeva per soldi. La pensione sociale che aveva gli bastava per una vita decorosa e semplice e a lui non serviva di più.
E dipingere significava vivere ancora in un mondo a colori. Era il suo modo di riappropriarsi di quanto gli era stato sottratto.
"Ci sono cose che abbiamo dentro, e nessuno, nemmeno un microscopico virus, può portarcele via. Sopravvivono nei i ricordi, nella memoria assai più di quanto si possa credere. Vivono nelle percezioni che sentiamo. Dipende solo da noi riconoscerle e dargli spazio. Sentirle nostre, vive dentro di noi."
Si fermò all'improvviso mentre parlava e sollevò una mano a mezz'aria cambiando tono di voce.
"Ti piace?"
"Il quadro? - domandai incerto, colto alla sprovvista dalla domanda  - Si, molto. Soprattutto dopo averla sentita parlare."
Scosse il capo voltandosi lievemente a sinistra e sorrise.
"No, non il quadro. La donna che sta arrivando. È bella? Dal rumore dei suoi passi, direi di sì. Cammina sicura con un bel ritmo. Deve sentirsi bella e vuole farsi ammirare."
Era una donna alta, slanciata, dal portamento elegante e sicuro. Camminava su tacchi alti, muovendo i fianchi in una danza sinuosa. I capelli neri e mossi danzavano al ritmo del suo passo. Aveva ragione, era una bella donna. Mi chiese di descriverla per lui. Mi ascoltò con gli occhi socchiusi muovendo la punta dell'indice sul legno del tavolino come se la disegnasse. "Grazie, Talos" - disse rimarcando l'abitudine degli abitanti di Buenos Aires di chiamare così gli italiani emigrati in Argentina - "uno dei pochi rimpianti che mi rattrista ancora, è non aver mai potuto guardare la mia  donna negli occhi."
C'era un velo di profonda tristezza in quelle parole che mi lasciò in silenzio.
"Gli occhi della unica donna che ho amato, erano verdi. Me lo disse lei. Mi sarebbe bastato poterli vedere un istante e li avrei ricordati per sempre."

La sera era calda e umida e la strada era ancora affollata di gente malgrado l'ora tarda. Caminito, sembrava avesse finito le parole, sprofondate in un silenzio dal quale non sapeva uscire. Non volevo commiserare il suo disagio, dissi che ero molto dispiaciuto ma lui cambiò subito argomento.
"Le nuvole - disse - sono come le persone. Cambiano di continuo forma, colore, dimensioni.  Anche le persone cambiano, ma non lo sanno e quando se ne accorgono, spesso è già troppo tardi. Si pensano sempre uguali. Le nuvole invece no, e hanno imparato a fondersi, nuvola con nuvola. Si fondono che è una meraviglia, quando si incontrano.
Le persone non sono così altrettanto capaci di farlo. Ogni persona è come una nuvola, e la vita è il cielo azzurro o grigio su cui camminano. Ma fanno fatica a fondersi, e finiscono per essere spazzate via dal vento, com'è successo a noi."
Raccontò di come per orgoglio aveva respinto l'unica vera donna che avesse mai  amato. La donna dagli occhi verdi che non aveva potuto vedere. Non voleva che stesse con lui per compassione. Non era riuscito a credere che il suo amore fosse libero e indipendente dalla sua cecità, e aveva finito per allontanarla tradendola con molte altre donne.
"Sai una cosa, Talos?" - chiese prendendomi una mano, stringendola con quelle dita ossute e scarne - "sai perché piacevo tanto alle donne? Perché un cieco non può vedere i loro difetti e si sentono libere di essere se stesse."
Si alzò prendendo il suo quadro sottobraccio. Mi chiese se volevo fargli la cortesia di accompagnarlo fino all'angolo. Mi ritrovai a camminare con lui fino al portone di casa sua. Per tutto il tempo non disse altra parola. Quando ci salutammo mi lasciò con una frase che ancora ricordo e solo dopo qualche tempo capii il suo significato.
"Se vorrai cambiare la tua vita - disse - impara dalle nuvole. Non fare che il tuo giorno sia sempre uguale a quello appena passato."
Ci salutammo cordialmente come si saluta un vecchio amico, eppure lo conoscevo solo da qualche ora. Insistette per farmi dono del suo quadro.
"Non si preoccupi per i soldi - disse - me li darà la prossima volta che ci incontreremmo."

Non ci fu una prossima volta. Qualche settimana più tardi appresi la notizia della sua morte da un trafiletto su un giornale. Poche righe per ricordare quello strano vecchietto che dipingeva il cielo con un dito.
Due settimane addietro la sua morte presi in affitto le stanze dove abitava. Le pareti erano interamente dipinte come un unico grande cielo azzurro sul quale le nuvole di ogni forma si muovevano libere. Su una di esse lo spazio lasciato bianco per un piccolo quadro. Un tassello mancante in un cielo perfetto. Era il quadro che mi aveva regalato quella sera. Quando lo sovrapposi perfettamente rendendo integro il suo disegno.
"Donde vas Caminito. Donde vas en la via tocando el cielo con un dedo? Donde vas Caminito..."