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domenica 22 dicembre 2013

Requiem for an angel


Chi sono gli angeli? Esistono davvero gli angeli?
Senza voler offendere le credenze di nessuno, la domanda che più o meno ha attraversato la mente e il cuore di tutti, insinua il dubbio sulla loro esistenza.
Forse siamo stati tutti angeli. In un tempo all'inizio del tempo, forse tutti eravamo angeli. 
O demoni? Angeli oscuri caduti nelle loro disgrazie per aver sfidato il loro creatore. Chissà forse è davvero così, o forse no. Forse un tempo, all'inizio del tempo, anche le nostre ali erano in grado di farci volare sopra i pensieri, se non addirittura liberi dai pensieri, di sollevarci sopra l'umana condizione di esseri incatenati controvoglia al nostro destino, come se il destino fosse tracciato da linee invisibili e imperscrutabili.
Forse un tempo sì, eravamo davvero angeli prima di essere trascinati giù dalle miserie dei nostri tormenti, dai dubbi, dalle insicurezze, dalle ipocrisie, attratti dalla vanità di un momento di gloria, dal luccichio di occhi riflessi in uno specchio, soggiogati ai rimpianti per ciò che poteva e non ha potuto essere, ingannati dal voler apparire, traditi dalla nostra fame di avere più che da quella di essere.
Forse sì, in un tempo all'inizio del tempo siamo stati tutti angeli. O forse no. 
Forse è solo una favoletta per imbonire i bambini di una volta. 
Forse gli angeli sono semplicemente lo specchio che riflette i ricordi di chi ci ha camminato al fianco, di chi ci ha sostenuto, amato, sorriso, di chi ha condiviso gioie e dolori e poi ci ha dovuto lasciare suo malgrado. 
Forse gli angeli sono solo questo. Li chiamiamo angeli e ci volano accanto silenziosi e discreti come il sorriso timido di un vecchio che ti saluta con lo sguardo seduto su una panchina mentre cammini all'alba in un parco imbrunito dalla rugiada.
E forse chissà, un giorno alla fine del tempo anche noi torneremo ad essere angeli per qualcuno, anche noi seduti su una panchina avvolta dalla foschia dei ricordi di una vita fa.
Ho voluto dedicare questo Requiem for a angel a mio padre. A un angelo che ormai accompagna i miei passi da più di dieci anni.
Instancabilmente ha cancellato la sofferenza di quel doloroso distacco con la sua presenza non solo nei momenti bui, trasformando lacrime di pioggia in splendide melodie dal suono cristallino. 
A mio padre, si, ma anche a tutti gli angeli, o demoni, a tutti quelli che lo sono o lo saranno. A tutti gli angeli o demoni, sì, compreso quello che sta nascosto in ognuno di noi.

"Come un soffio gelido che giunge  da lontano in una notte scura e senza luce, grave come l'alito della morte, interrotto dal battere di due suoni bassi, pesanti, disarmonici quando arriva la prima frase leggera degli archi appena sussurrata, con l'orchestra che trattiene gli archi leggeri, ad allungare note come se il suono fosse l'eco di se stesso. 
Un suono  lontano, stanco che poi si gonfia mentre si avvicina possente su un lento battito di ali che impongono il ritmo. Ali che fanno fremere l'aria  tanto forte da sentirla vibrare attorno a te.
Sono ali pesanti, stanche come un volo che non ce la fa più a sostenerti mentre senti già il controcanto dei violini contrapposto alla pesantezza dell'orchestra. 
E lì, sotto quel canto arriva il violoncello che ti trascina giù, verso il basso con quel suo suono color blu notte, mentre i violini increduli, intonano di nuovo il loro lamento e sembra che ti dicano: “no.. perché ...perché vado giù!!”  ma violoncello non gli da tregua, non gli da pace con quel suo canto scuro che strazia la carne. Ed è li che che arrivano le prime lacrime di pioggia del pianoforte che si lascia andare a un ritmo cadenzato come piedi che camminano per la prima volta, prima di abbandonarsi a un pianto che si fa straziante. 
Lacrime.. una dopo l'altra. Lacrime di ricordi ormai cristallizzati in un ritmo che sembra incerto, che ruba tempo al tempo in cerca di spazi di vita. E va su, in alto ... ancora più in alto .. la dove prima stavano le ali."
 
 




venerdì 13 settembre 2013

L'abito e il monaco.



Ogni volta che apriva l'armadio lo vedeva lì, appeso nella sua custodia di protezione e malgrado lo vedesse tutte le volte, ormai gli era divantato quasi invisibile.
Conteneva uno smoking nero. Accuratamente riposto, con la sua camicia bianca, leggermente ingiallita ai bordi del colletto e dei polsini. Nella tasca i due gemelli appartenuti al padre. Il papillon che spuntava dal taschino. La fascia che sormontava i pantaloni sulla gruccia da viaggio. Era il suo abito. Eppure, odiava le giacche. Odiava vestirsi in modo elegante. Non si sentiva a suo agio, ma quello era l'unico abito che poteva indossare. Non per l'eleganza ma per il ruolo che gli spettava. Aveva viaggiato con lui in tutto il mondo, nelle sale da concerto, e nei teatri dove si era esibito. Ora stava lì appeso e immobile come certi ricordi indelebili che niente può cancellare dalla mente.
Gli mancava e forse anche lui mancava al suo abito. Quel giorno però lo sguardo si posò su di lui. Lo prese, e con cura lo adagiò sul letto facendo scivolare verso il basso la cerniera del portabiti. Accarezzò lentamente la stoffa intatta, morbida, setosa e nera come l'asfalto dopo la pioggia. 

Lo indossò con gli stessi lenti gesti scaramantici di un tempo. Non si doveva avere fretta, era come il rituale di un samurai, la vestizione.
La camicia dopo i pantaloni, la giacca dopo la fascia e il papillon. Per ultimi i gemelli. Così doveva essere, il ricordo di suo padre era come un in bocca al lupo. 
Sistemò i polsini, dovevano sporgere solo il giusto non di più. Infilò le scarpe nere, ancora pulitissime e guardò lo specchio che gli rifletteva un'immagine che non era più in grado di riconoscere. 

Era solo un abito. Ciò che un tempo rappresentava, sembrava l'avesse inghiottito il buio. 
Mise una mano nella tasca, trovò ancora un bigliettino di un ristorante di New York che era il suo portafortuna. Sorrise.
Non era quell'abito a fare di lui ciò che era, pensò. Eppure sapeva che con quell'abito lui era stato davvero se stesso.



sabato 8 giugno 2013

Suonato





L'ultimo pugno era arrivato secco al volto. Un gancio di una potenza micidiale del suo avversario assai più svelto di gambe di lui. Già, le gambe!
Il suo secondo lo aveva avvertito di non restare bloccato sulle gambe o sarebbero stati guai seri. "Agile.. Agile!" Lo sentiva ringhiare fuori dal ring. "Stai lontano da quel fottuto angolo!"
Era uno che sapeva incassare. Lo pagavano per quello. Incassare e resistere fino alla ripresa stabilita, incassare il premio della scommessa e via in un'altra città.
Era tutta una vita che incassava e non solo pugni. Non aveva avuto una carriera facile. Era lo specchio esatto della sua vita sconclusionata. Segnata come il suo volto, col setto nasale deviato e gli zigomi ingrossati dai pugni.
E di pugni in faccia ne aveva presi più di quelli dati, tanto che si chiedeva seriamente se non ne avesse presi troppi, visto la fatica che faceva a riordinare le idee o i ricordi.
Eppure quella sera sentiva che ce la poteva fare. Stretto all'angolo incassava quasi senza fiatare i colpi dell'avversario. Era convinto di poter dimostrare a quella folla in delirio e a stesso di essere capace di sovvertire il pronostico, di valere ancora qualcosa. Ma quel gancio si era fatto sentire. Le gambe erano di colpo diventate pesanti e il gong era ancora troppo lontano. Doveva reagire, buttare fuori l'aria che sapeva di sangue rappreso del labbro tagliato.
L'arbitro gli contò i secondi davanti agli occhi. Uno, due tre..
Coi guantoni abbassati cercò di farsi vedere il più tonico possibile.
"Ce la fai?"
Fece di sì col capo incassato sulle spalle larghe. Puzzava di un sudore acre. Strinse con forza il paradenti e guardò fisso il suo avversario che lo scherniva ballonzolandogli davanti. Non si mosse dall'angolo. Era lì che voleva restare. Portò la guardia alta stringendo i gomiti alle costole doloranti. Quanto poteva ancora resistere. Quanto?
Tentò una difesa per sottrarsi a quella serie di colpi bassi che gli arrivavano da tutte le parti e lasciò partire un diretto che si infilò nella guardia dell'avversario. Se solo avesse avuto la potenza di un tempo, forse l'avrebbe steso, pensò. Ma non fu così. L'altro gli si avventò contro con più veemenza di prima fino al suono del gong.
Il viso era una maschera di sudore e di sangue. L'occhio destro era quasi completamente tumefatto e a poco servì il freddo del metallo per tamponare la ferita ormai gonfia che gli impediva di vedere. Eppure, era ancora convinto di potercela fare.
"Resisti, devi resistere. Ancora due riprese e incassiamo la nostra parte ed è fatta." Per il suo secondo era solo una questione di soldi e di scommesse truccate. Per lui, era una questione di dignità. Voleva sentirsi onesto fino in fondo con se stesso per una volta nella vita. Infischiarsene delle scommesse e vincere quel dannato incontro. Era stanco di finire a tappeto per ingrassare le tasche degli scommettitori. Stanco di fare da comparsa di un copione già scritto in un circo di pulci ammaestrate.
Si ributtò nel match con tutte le forze che ancora aveva. Lasciò partire un montante col sinistro, giocando d'anticipo ma andò a vuoto. L'avversario lo irrideva senza colpirlo.
Gli danzava intorno schivando i suoi colpi a vuoto e si ritrovò di nuovo all'angolo.
"Puoi farcela... te lo devi... puoi farcela.." si ripeteva.
Le parole gli ronzavano in testa come un calabrone impazzito in un alveare di api. Il vociare della folla si era assopito di colpo come in un film muto.
Era davvero convinto di potercela fare, ma commesse l'imperdonabile errore di abbassare la guardia. Due ganci veloci uno dopo l'altro seguiti da un diretto devastante lo centrarono al volto e le ginocchia cedettero di schianto. Lo sguardo era già perso nel vuoto mentre cadeva. Il sapore della polvere lo conosceva bene, amaro come il sapore della sua vita. Era andato a tappeto troppe volte per dimenticarlo. Era il sapore della sconfitta.

giovedì 30 maggio 2013

Caminito




"Donde vas Caminito. Donde vas en la via tocando el cielo con un dedo? Donde vas Caminito..."

Caminito era un vecchio pittore cieco. Quasi tutte le sere lo si poteva incontrare nel locale di Rosario Aguilar in via de La Reunion, nel quartiere Recoleta a Buenos Aires. Si chiamava Ricardo Lagos, ma tutti lo chiamavano el Caminito.  Sembra strano a dirsi ma era un pittore, ed era cieco.
Arrivava canticchiando con la sua voce un po'  roca, accompagnato dal ticchettio del suo bastone bianco sui ciottoli della via, quasi tutte le sere con un quadro sottobraccio. Uno solo, tranne la domenica. La domenica no, diceva, perché se "Dio non lavorava la domenica allora lui non era da meno".
Quando arrivava c'era sempre un posto riservato per lui. Una poltroncina in vimini coi braccioli ricoperti di pelle consunta, appena fuori l'ingresso.
Posava il panama bianco sul tavolino, e poi sistemava il quadro vicino alle inferiate della finestra dietro le sue spalle. Ordinava sempre un amaro e restava a guardare la gente che passava.  Così diceva, "a guardare la gente che passava".
Si tratteneva fino a tarda notte o fino a quando qualcuno non gli avesse comprato il quadro, poi se ne andava sempre canticchiando. Aveva all'incirca un'ottantina d'anni.
Nel quartiere ormai era un personaggio noto e amato da tutti, soprattutto dalle donne.
Lo incontrai la prima volta in era una calda sera di ottobre dopo un concerto del mio amico violinista Ugo Raimondi. Ero arrivato a Buenos Aires da un paio di settimane, e avevo preso alloggio in un appartamentino di due stanze nel quartiere di San Telmo.  Fu lui che mi parlò di Caminito, l'uomo che dipingeva il cielo con un dito.
Quella sera entrando nel locale poco prima di rincasare mi ero fermato a osservare il suo quadro, in silenzio.
Il quadro aveva qualcosa di banale e di tragico nella sua semplicità, nelle pennellate che muovevano le nuvole sopra un cielo azzurro chiaro. C'era qualcosa di strano che mi colpiva ma non riuscivo a capire cosa. Ti spiazzava.
"È il cielo sopra Santa Maria de Los Buenos Aires" disse avvertendo la mia presenza e forse il mio stupore. "Se lo vuol comprare, faccia lei il prezzo."
Risposi che se avessi avuto con me abbastanza soldi l'avrei fatto volentieri,  scusandomi per il mio spagnolo ancora impacciato.
"Nulla al mondo è perfetto... nemmeno Dios è perfetto..." rispose invitandomi a sedere con lui con l'aria consumata di chi era abituato a trattare con ogni tipo persona.
Parlava lentamente, con calma, con le mani poggiate al pomolo del bastone da passeggio e ti fissava come fanno i ciechi. Forse perché gli occhi di un cieco ti guardano come se ti scavassero dentro, fatto sta che questa cosa mi ha sempre creato disagio.
Aveva mani asciutte, scarne e curate. Sul volto un'espressione assorta  dalla quale traspariva un sorta di indifferenza per tutto ciò che lo circondava.
Mi raccontò che aveva perso la vista all'età di quindici anni a causa di un'orribile infezione ai bulbi oculari. Si erano spenti prima uno e poi l'altro, come due lampadine bruciate, lasciandogli solo delle ombre vaghe e indefinite.
Non fu facile superare quel momento in cui luce e buio si erano dichiarati guerra all'improvviso gettandolo nella disperazione di un'adolescenza bruciata nel fiore degli anni. La delusione nel vedere scomparire quell'unica speranza che gli avevano lasciato i medici era seconda sola alla delusione di aver visto il mondo spegnersi in quel modo.
"I miei occhi erano fatti per vedere, Talos! Ma si sono spenti come la fiamma di una candela al vento!"
Si intuiva ancora un velo di sofferenza dietro quelle parole pronunciate con un sorriso amaro, anche se ora a distanza di tanti anni, alla soglia della vecchiaia, la speranza nutrita in gioventù aveva lasciato il posto a una rassegnata accettazione della sua condizione.
Mi raccontò che la notte sognava ancora di vedere il mondo come lo aveva sempre visto, a colori vivaci e sgargianti. Era il suo modo di continuare a vedere ciò che stava oltre quella barriera fatta solo di suoni, voci e rumori senza una forma precisa. E di buio.
Per lui il mondo era come sentire la voce di un bella donna che non puoi vedere.  "Sai che esiste - mi disse -  È lì fuori e lo senti che ti gira attorno e non puoi fare altro che immaginarlo, il mondo. Immagini le sue forme, il suo viso, i suoi capelli, le sue tette. Capisci? Hai mai provato a immaginare le tette del mondo?"
Aveva uno spiccato senso dell'ironia davanti al quale era impossibile restare indifferenti.
Raccontò che osservare il cielo era la sua passione fin da piccolo.  "Il cielo di giorno! " precisò. Disteso su un prato con le braccia dietro la nuca poteva osservare le nuvole passare per intere giornate. Guardava le forme che disegnavano, il loro muoversi e danzare nell'aria come tante ninfee in movimento in un stagno azzurro di un cielo terso, o nel grigiore di un temporale, o nelle sfumature viola di un tramonto. Pensava che fosse fin troppo facile incantarsi di fronte alla Stella del Sud o alla via lattea, provare un brivido davanti all'immensità delle galassie, cosa che lui non disprezzava affatto - ribadì con puntiglio - ma il cielo di giorno restava per lui una fonte inesauribile di ispirazione. 

Amava dipingere. E dipingeva il cielo con le dita, non coi pennelli.
"I pennelli sono per gli incapaci" disse ridacchiando per la battuta.
Aveva imparato a creare tutte le sfumature di azzurro e di grigio quando ancora aveva la vista, ed era affascinato dalle forme delle nuvole. Mai uguali, sempre diverse, sempre in movimento. 
"Hai una vaga idea di quante forme disegnano le nuvole su un cielo qualsiasi, con qualsiasi tempo, Talos?"
Risposi che in realtà non avevo mai fatto caso più di tanto, se non in rare occasioni.
"Nessuno guarda più il cielo di giorno, ormai. Tutti vanno troppo di fretta, per alzare la testa. È il guaio di questo mondo. E invece c'è molto da imparare dalle nuvole."
Conosceva il cielo di giorno come nessun altro. Lo vedeva nei suoi ricordi di gioventù e ancora oggi lo riconosceva dal profumo che aveva il vento o dal calore del sole, mi disse.
"Il vento e le nuvole sono come due amanti che sanno di sesso. Non hanno bisogno di vedersi. Si riconoscono a pelle. E io riconosco il cielo come riconoscevo la mia donna. È così! Lo sento."
Lo ascoltavo in silenzio in quel suo modo di trascinarti nel suo mondo pieno di metafore e dal modo con cui aveva pronunciato quelle parole intuii che la donna di cui parlava doveva essere il suo grande amore, ma non disse  altro di lei quella sera.
Da ragazzino i compagni di scuola lo chiamavano lo strano, per quel suo modo di essere indifferente al tempo e allo spazio, sempre con lo sguardo al cielo come se aspettasse qualcosa da un momento all'altro, prima che la cecità lo relegasse in una solitudine profonda.
Gli amici se ne erano andati uno dopo l'altro già dall'epoca della scuola. Nessuno aveva interesse a giocare con un cieco, mi raccontò.
Non dipingeva per soldi. La pensione sociale che aveva gli bastava per una vita decorosa e semplice e a lui non serviva di più.
E dipingere significava vivere ancora in un mondo a colori. Era il suo modo di riappropriarsi di quanto gli era stato sottratto.
"Ci sono cose che abbiamo dentro, e nessuno, nemmeno un microscopico virus, può portarcele via. Sopravvivono nei i ricordi, nella memoria assai più di quanto si possa credere. Vivono nelle percezioni che sentiamo. Dipende solo da noi riconoscerle e dargli spazio. Sentirle nostre, vive dentro di noi."
Si fermò all'improvviso mentre parlava e sollevò una mano a mezz'aria cambiando tono di voce.
"Ti piace?"
"Il quadro? - domandai incerto, colto alla sprovvista dalla domanda  - Si, molto. Soprattutto dopo averla sentita parlare."
Scosse il capo voltandosi lievemente a sinistra e sorrise.
"No, non il quadro. La donna che sta arrivando. È bella? Dal rumore dei suoi passi, direi di sì. Cammina sicura con un bel ritmo. Deve sentirsi bella e vuole farsi ammirare."
Era una donna alta, slanciata, dal portamento elegante e sicuro. Camminava su tacchi alti, muovendo i fianchi in una danza sinuosa. I capelli neri e mossi danzavano al ritmo del suo passo. Aveva ragione, era una bella donna. Mi chiese di descriverla per lui. Mi ascoltò con gli occhi socchiusi muovendo la punta dell'indice sul legno del tavolino come se la disegnasse. "Grazie, Talos" - disse rimarcando l'abitudine degli abitanti di Buenos Aires di chiamare così gli italiani emigrati in Argentina - "uno dei pochi rimpianti che mi rattrista ancora, è non aver mai potuto guardare la mia  donna negli occhi."
C'era un velo di profonda tristezza in quelle parole che mi lasciò in silenzio.
"Gli occhi della unica donna che ho amato, erano verdi. Me lo disse lei. Mi sarebbe bastato poterli vedere un istante e li avrei ricordati per sempre."

La sera era calda e umida e la strada era ancora affollata di gente malgrado l'ora tarda. Caminito, sembrava avesse finito le parole, sprofondate in un silenzio dal quale non sapeva uscire. Non volevo commiserare il suo disagio, dissi che ero molto dispiaciuto ma lui cambiò subito argomento.
"Le nuvole - disse - sono come le persone. Cambiano di continuo forma, colore, dimensioni.  Anche le persone cambiano, ma non lo sanno e quando se ne accorgono, spesso è già troppo tardi. Si pensano sempre uguali. Le nuvole invece no, e hanno imparato a fondersi, nuvola con nuvola. Si fondono che è una meraviglia, quando si incontrano.
Le persone non sono così altrettanto capaci di farlo. Ogni persona è come una nuvola, e la vita è il cielo azzurro o grigio su cui camminano. Ma fanno fatica a fondersi, e finiscono per essere spazzate via dal vento, com'è successo a noi."
Raccontò di come per orgoglio aveva respinto l'unica vera donna che avesse mai  amato. La donna dagli occhi verdi che non aveva potuto vedere. Non voleva che stesse con lui per compassione. Non era riuscito a credere che il suo amore fosse libero e indipendente dalla sua cecità, e aveva finito per allontanarla tradendola con molte altre donne.
"Sai una cosa, Talos?" - chiese prendendomi una mano, stringendola con quelle dita ossute e scarne - "sai perché piacevo tanto alle donne? Perché un cieco non può vedere i loro difetti e si sentono libere di essere se stesse."
Si alzò prendendo il suo quadro sottobraccio. Mi chiese se volevo fargli la cortesia di accompagnarlo fino all'angolo. Mi ritrovai a camminare con lui fino al portone di casa sua. Per tutto il tempo non disse altra parola. Quando ci salutammo mi lasciò con una frase che ancora ricordo e solo dopo qualche tempo capii il suo significato.
"Se vorrai cambiare la tua vita - disse - impara dalle nuvole. Non fare che il tuo giorno sia sempre uguale a quello appena passato."
Ci salutammo cordialmente come si saluta un vecchio amico, eppure lo conoscevo solo da qualche ora. Insistette per farmi dono del suo quadro.
"Non si preoccupi per i soldi - disse - me li darà la prossima volta che ci incontreremmo."

Non ci fu una prossima volta. Qualche settimana più tardi appresi la notizia della sua morte da un trafiletto su un giornale. Poche righe per ricordare quello strano vecchietto che dipingeva il cielo con un dito.
Due settimane addietro la sua morte presi in affitto le stanze dove abitava. Le pareti erano interamente dipinte come un unico grande cielo azzurro sul quale le nuvole di ogni forma si muovevano libere. Su una di esse lo spazio lasciato bianco per un piccolo quadro. Un tassello mancante in un cielo perfetto. Era il quadro che mi aveva regalato quella sera. Quando lo sovrapposi perfettamente rendendo integro il suo disegno.
"Donde vas Caminito. Donde vas en la via tocando el cielo con un dedo? Donde vas Caminito..."

sabato 13 aprile 2013

Il Giocattolaio...





In paese lo chiamavano così, il Giocattolaio e nessuno si era mai preoccupato di sapere il suo vero nome. A lui del resto non dispiaceva, per come era fatto meno si sapeva di lui e più si sentiva a suo agio. Viveva nel retrobottega del suo negozio di un'unica vetrina, dai vetri sempre impolverati, ma non c'era merce esposta. Anzi a dire il vero nemmeno all'interno si era mai riuscito a capire cosa vendesse e in effetti non aveva nulla da vendere. 
Era un tipo strano. Scontroso ma di indole pacifica. Non amava le risse, non amava la confusione, e alla compagnia degli uomini preferiva quella del suo cane. Un trovatello che lo seguiva ovunque andasse. 
Viveva di espedienti e per campare faceva mille lavori, in genere i più umili. Dall'arrotino, allo spazzacamini, dal minatore al bracciante, all'uomo di fatica.
Girava voce che in passato avesse dilapidato una vera fortuna al gioco, ma erano tante le voci sul suo conto. C'era chi diceva che un tempo fosse stato un musicista famoso, chi un medico, e perfino c'era chi giurava di aver visto la sua faccia su qualche manifesto di un circo russo. E non mancavano nemmeno le voci di chi diceva che fosse un avanzo di galera.
In paese era visto con sospetto dalle autorità e dai benpensanti. 
Amava la musica e ogni tanto suonava un violino che si era costruito con le sue mani. Le musiche se le inventava lui, a orecchio, senza conoscere una nota scritta. Odiava le convenzioni e gli ipocriti e il denaro. 
Aveva mani abili e non c'era cosa che non sapesse costruire o riparare. E amava i bambini. Amava molto i bambini, e loro amavano lui. 
Quando li incontrava per la strada gli strappavano sempre un sorriso. E per loro costruiva bellissimi giocattoli dai colori sgargianti. Piccoli animaletti in legno o semplici bambole, ma anche sofisticati giocattoli meccanici in grado di muoversi, monopattini, aquiloni dalle forme fantastiche. 
Aveva una fantasia fuori dal comune e la esprimeva così, costruendo giocattoli da regalare ai bambini. Ogni cosa, ogni oggetto per lui si trasformava in gioco. Non si faceva mai pagare. Gli bastava il loro sorriso, diceva. E i bambini lo adoravano, additandolo per la strada quando lo incontravano.
Il giocattolaio! Il giocattolaio! Esclamavano contenti, trascinati via di genitori che invece lo guardavano con sospetto. 


Se ne andò un giorno di novembre, in silenzio, così come era arrivato. Nella bottega vuota con la vetrina offuscata dalla polvere, era rimasto il suo ultimo bellissimo giocattolo: un cavallino a dondolo in legno tanto perfetto da sembrare vero, sopra il quale aveva lasciato il suo ultimo saluto ai bambini di quel piccolo paese. Erano passati esattamente mille ottocentottantadue giorni da quando era arrivato e di lui non si seppe più nulla, ma ancora oggi se vi capitasse di passare per quel borgo potete vedere il suo cavallino a dondolo far bella mostra di sé davanti all'ingresso della scuola. Una piccola targa in ottone recita le sue ultime parole di commiato.
"Perché il gioco non sia solo cibo per la mente, ma anche per l'anima..." 



domenica 24 marzo 2013

Fiore di campo...



(dedicato a mia madre)


Col tuo sorriso nel cuore
accarezzo i ricordi di una vita:
quella che mi hai dato,
regalato e vissuto fino all'ultimo
tuo angoscioso respiro.
Col sorriso nel cuore
come un fiore di campo
nato nel posto sbagliato,
rivedo il tuo sorriso
quando mi chiamavi "il tuo sole"
Col sorriso nel cuore,
come hai sempre voluto tu...








martedì 12 febbraio 2013

La Palude


 

Camminava lungo il sentiero dentro quella giungla asciutta, e silenziosa senza sapere come ci fosse arrivato. Aveva solo un vago ricordo di quando era partito. Un ricordo confuso che gli annebbiava la mente.
Non si aspettava che fosse così, la giungla. Ricordava di averla sognata molte volte. Un sogno ripetuto e ricorrente. Nel sogno era una giungla umida, silenziosa e calda come un ventre materno. Essenza di un habitat primordiale dove vita e morte si contendevano il destino delle creature che l'abitavano.
E invece no, lì dove si trovava era tutto diverso. La realtà - pensò - non è mai come la immaginiamo, può solo avvicinarsi ma sono poi i dettagli a fare la differenza.
Percorreva il sentiero costeggiando un fiume rosso, scuro come il sangue rappreso di una ferita, che tagliava a metà la foresta lussureggiante, incredulo per il silenzio che l'avvolgeva. Nemmeno il fiume parlava da fiume.
Si sforzò di ricordare cosa l'avesse spinto ad arrivare fino a lì, ma non ci riuscì. C'era qualcosa di più oltre il semplice bisogno di isolarsi, di dare un taglio netto al suo passato senza voltarsi indietro.
Liberare la mente dai ricordi, dalle incomprensioni, dalle speranze di una vita trasformate in illusioni. La voglia di guardare avanti senza fare progetti e mettere distanza fra sé e il mondo. Era forse per questo che si trovava lì?
Si ritrovò a pensare che se un viaggio ha un inizio allora ogni viaggio deve avere una fine.
Cercò di ricordare l'inizio di quel viaggio. Doveva per forza esserci un inizio.
Dai ricordi confusi emerse il giorno in cui aveva radunato in uno zaino quei pochi oggetti che avessero ancora un significato. L' orologio di suo padre, un quaderno di appunti, le foto dei suoi figli, qualche semplice indumento di ricambio e null'altro.
Il bagaglio doveva essere leggero - pensò - perché i ricordi pesano sempre come macigni e già gli bastavano quelli che portava nel cuore.
Continuava a camminare come se il tempo si divertisse a mischiare passato e presente in un vortice silenzioso di immagini, tralasciando con cura il futuro. Vide i suoi strumenti, le musiche che aveva amato e suonato, i suoi libri.
Un biglietto appeso ad una porta prima di chiudersela alle spalle, era l'ombra passeggera di un ricordo. Pensò che le parole per dirsi addio non sono mai abbastanza, tanto valeva usarne poche e di quelle giuste.
Sentì lo stomaco contorcersi al pensiero che non sarebbe mai più tornato.
Un rumore di foglie lo riportò al presente.
Qualcosa si era mosso veloce nel sottobosco rigoglioso, seguito da un sordo rantolio che sapeva di selvaggio. Proseguì il cammino su per il sentiero che iniziava a salire, abbandonando il fiume al suo lento destino. Aveva perso la cognizione del tempo.
L'immagine fugace di un giaguaro vista da qualche parte, forse all'aeroporto gli attraversò i ricordi mescolandosi a un brusio di voci in una lingua che amava, in un vortice di volti sconosciuti dal sorriso triste. Ricordò il senso di libertà che quei volti gli avevano restituito.
Pochi passi ancora e il sentiero si inerpicò ripido su per la montagna, in un intrico di rami e radici, rendendo difficoltosa la marcia.
Fu lì che lo vide per la prima volta. A una decina di metri davanti a lui un giaguaro lo stava fissando acquattato sul terreno.
Si fermò in attesa di capire cosa fare. Quando si decise a muovere un passo, il giaguaro si dileguò nella boscaglia con un balzo.
Le grosse radici degli alberi avevano inghiottito il sentiero e faticava a risalire. Il terreno era diventato umido e scivoloso e la sensazione di essere osservato non lo abbandonava, come se sentisse gli occhi della belva sul collo. La volta degli alberi si chiudeva alta sopra la sua testa, come arcate di una cattedrale verde e silenziosa. Chiusa in quel silenzio mistico, la giungla contemplava se stessa sprofondando in una scura penombra tagliata da fendenti di luce.
Si rinfrescò il viso immergendo le mani in un rivolo d'acqua che scendeva a valle. Quando si rialzò, una vecchia indios, bassa di statura, con una fascia rossa in fronte a fermare lucidi capelli neri, lo guardava immobile e silenziosa. Il corpo nudo dipinto d'argilla rossastra, la rendevano simile a una statua animata. La pelle raggrinzita dei seni che pendevano flaccidi e il ventre coperto da un cintura di foglie.
Gli parlò in una lingua arcana che non riusciva a comprendere.
Pensò ad un'ennesima visione ascoltando le parole che la donna ripeteva come un'antica nenia. Tornò a sciacquarsi il viso ma quando riaprì gli occhi la donna era scomparsa nel nulla.
Al suo posto trovò un amuleto. Una piccola mano intagliata nel legno nero, con un cordino di corteccia intrecciata. Lo raccolse e se lo mise al collo.
Riprese la marcia tenendo stretto fra le dita l'amuleto come a provare a se stesso di non essere solo un sogno dentro nel sogno. Ogni passo diventava sempre più faticoso.
La foresta immobile e silenziosa lo stava osservando. Come un essere pensante seguiva i passi di quell'intruso senza opporre resistenza.
Vinto dalla fatica si rannicchiò nell'incavo di un grande albero, abbandonandosi al sonno.
I ricordi di una vita correvano veloci nella sua mente, al pari di nuvole spazzate dal vento. Si rivide bambino correre disperato verso la luce inseguito da una lunga mano nera che lo schiacciava al suolo accompagnato dalle urla disperate della madre che non riuscivano a bucare quel silenzio che lo circondava, proprio come in quella giungla.
Il tempo si era spezzato con la stessa fragilità di un ramo secco. Nel sonno si tastava il petto in cerca del talismano mentre un grosso uccello nero si cibava del suo cuore con la voracità di un rapace, colorando di rosso le piume della sua coda. Un urlo si soffocò in gola alla vista di quella scena.
Non riusciva a respirare. Incerto tra sogno e realtà fissava l'uccello squarciargli il petto. Avvertiva il suo corpo rigido e freddo con un senso crescente di angoscia incapace di muovere un solo muscolo.
Quando riaprì gli occhi, l'incubo era svanito in una nuvola di polvere nera che vorticava davanti al suo sguardo. Fece appena in tempo a vedere la sagoma della vecchia che si dileguava tra il fogliame.
Decise di inseguirla arrancando tra gli alberi che opponevano resistenza come gendarmi messi apposta per impedirgli di raggiungerla.
Più si avvicinava alla donna e più gli ostacoli si sovrapponevano di continuo.
La rivide ferma e immobile che lo fissava dalla parte opposta di un acquitrino sul quale regnava un acre odore di morte. L'acqua era bassa e stagnante, scura come la pece, simile a una fanghiglia maleodorante dalla quale emergevano spuntoni di alberi in putrefazione. Una leggera coltre di nebbia lambiva la superficie della palude. La donna incensava l'aria di ceneri gettandole al vento salmodiando la sua nenia come una sacerdotessa.
Quella voce lo richiamava annullando la sua volontà di resistere. Entrò nell'acquitrino affondando già fino al tallone nel fango. Procedette a fatica ma il peso del corpo lo faceva sprofondare sempre di più.
"Maledizione... sabbie mobili.." Si ricordò solo in quel momento del suono della sua voce come fosse ritornata alla mente dopo un viaggio millenario nel silenzio.
Per la prima volta si sentì perso, smarrito, senza alcuna volontà.
La vecchia indios lo osservava dal lato opposto della palude. Sollevò in aria una nuvola di polvere e poi sparì.
Era sprofondato fino alla cintola e il solo movimento di respirare aumentava la sensazione di affondare più velocemente nel fango. Di lì a poco la palude sarebbe stata la sua tomba.
Pensò ad un oscuro sortilegio lanciatogli dalla vecchia. L'uccello dell'incubo prima, ora la palude. Doveva solo trovare la forza di svegliarsi.
Sentì il sapore della terra sulle labbra. Il respiro farsi sempre più pesante. Una forza lenta e massiccia lo trascinava verso il fondo. Il fango gli impediva di respirare. Sollevò le braccia al di sopra della melma fetida che lo inghiottiva. Trattenne il fiato con il nero spettro della morte negli occhi, con la speranza che se di incubo si trattava, sarebbe svanito al risveglio.
Si risvegliò nudo in una capanna di frasche. Disteso su una stuoia tremava per la febbre. A fatica aprì gli occhi alla voce di un vecchio che gli segnava una croce con le dita sulla fronte. Delirava privo di forze, lasciandosi respirare dalla terra sulla quale era disteso. Bevve qualcosa che non era acqua dalla ciotola che il vecchio gli porse sulle labbra.

L'aveva salvato appena in tempo e ora lo stava curando. Le notti e i giorni sfilavano sopra la volta della foresta, finché piovve per una notte intera.
Le gocce erano fredde e pungenti come aghi. Le sentiva sul corpo simili a punture di spillo e suo malgrado non riuscì a ricordare un sonno migliore di quello dentro il quale sprofondò.
L'indomani la capanna era vuota. Del vecchio non c'era altra traccia se non la ciotola dalla quale aveva bevuto. Bevve quel poco che gli aveva lasciato.

Non ricordava il sapore del cibo e nemmeno quando avesse mangiato l'ultima volta. Si sentiva stanco, spossato, malgrado il sonno. Non aveva più nulla, né vestiti, né zaino.
Il sentiero era scomparso. La direzione smarrita. La foresta che lo circondava aveva perso il senso di immobilità con il quale l'aveva accolto.
La sua percezione era cambiata. La sentiva respirare. Sentiva il fruscio degli alberi, il lieve soffiare del vento, i versi lontani degli uccelli. Si faceva largo tra il fogliame aiutandosi con le mani sanguinanti ma si sentiva vivo.
Davanti all'ignoto - pensò - devi essere disposto a guardarlo nel profondo, o l'ignoto ti inghiottirà.
Aveva ritrovato il sentiero o forse semplicemente qualunque sentiero era quello giusto da seguire. La sensazione di essere osservato cresceva a ogni suo passo verso quella meta sconosciuta. Era solo, eppure non si sentiva ancora completamente solo.
Alle sue spalle il giaguaro lo seguiva tenendosi a distanza protetto dalla boscaglia. Era diventato la sua ombra silenziosa.
Non doveva cedere alla paura - si disse - scacciando il pensiero della sconfitta.
Si fermò e attese. Sapeva che l'avrebbe incontrato di nuovo. Quella prima fugace apparizione era stata l'inizio di tutto. Rivederlo sarebbe stata la fine di quell'incubo, in un modo o nell'altro.
Il giaguaro sbucò dalla boscaglia come se avesse accettato la sfida che l'uomo gli lanciava. Il suo passo era lento e sicuro. Lo guardò senza alcuna espressione negli occhi e si fermò. Il suo rantolio incuteva timore.
Si stavano fronteggiando. Sapeva che l'animale non gli avrebbe dato tregua. Non c'era via di scampo e nemmeno la fuga l'avrebbe salvato. Le sue mani erano l'unica arma che poteva brandire. Il suo coraggio era l'unica forza che gli rimaneva. Indietreggiò di un passo.
Quello era il segnale che il giaguaro aspettava per lanciare il suo attacco.
Lo vide gettarsi in una corsa possente. Le zampe affondavano sicure nel terreno prendendo velocità. Con un balzo l'animale gli fu sopra. Era quello l'attimo in cui doveva rimanere lucido.
Era di una forza disarmante quando lo afferrò per le spalle, lasciandosi cadere all'indietro per attutire l'impatto così violento del peso della bestia. Respirava l'aria che usciva dalle sue fauci con un sordo rantolio.
Lottò con la disperazione dei vinti, di chi non ha più niente da perdere.
Le unghie dell'animale gli incidevano la carne, ma le mani stringevano il suo collo senza allentare la presa. La lotta era impari e l'esito incerto. Con un ultimo disperato sforzo strinse i pollici fino a sentire la carotide spezzarsi, fino a che la belva cadde a peso morto su di lui.
Riprese conoscenza con ancora il corpo del giaguaro che lo sovrastava. Quando si rialzò aveva ripreso a bruciare per la febbre. Si guardò le ferite.
Il sangue rappreso disegnava il suo corpo come un dipinto di un martire.
Ora sapeva che doveva trovare solo la fine del viaggio e avrebbe trovato la pace che cercava.  
Le nuvole passavano veloci sopra il tetto della foresta. Da lontano una cascata riversava nuvole di vapore sulle rocce sottostanti. Era così alta che solo un angelo avrebbe potuto raggiungerla. Quando arrivò ai suoi piedi, l'aria era un turbinio umido che gli bagnava la pelle e i capelli. Sollevò lo guardo al cielo e capì che era quasi giunto alla meta che stava cercando.
Sapeva che non sarebbe stato facile raggiungere la cima del monte.
Gli alberi che ne ricoprivano le pareti sembravano una selva inestricabile, ma non poteva arrendersi, non ora. Toccò il talismano e iniziò a salire aggrappandosi ai rami. Il rumore della cascata si faceva più intenso mentre saliva. Come un rombo di un tuono scuoteva gli alberi e la roccia con il suo maglio poderoso.
Arrivò in cima al sorgere del sole. Le nuvole basse al di sotto del monte ricoprivano tutta la giungla.
Attese che si fece giorno, lavandosi nell'acqua rossastra. L'aria aveva ancora il profumo della notte. Guardava la giungla sottostante perdersi a vista d'occhio. Gli alberi grandi come formiche avevano perso la loro imponenza.
Con calma entrò nel greto del torrente che alimentava la cascata.
Era quella la fine del viaggio. Era quella la porta dell'ignoto che doveva varcare. Arrivò fino al bordo sulle rocce levigate dalle acque e spalancò le braccia. Inspirò a pieni polmoni l'aria fresca del giorno che stava crescendo e tutto gli fu chiaro. Affrontare l'ignoto del mondo, vuol dire affrontare l'ignoto che sta dentro di te - pensò - fosse anche che il fine ultimo è la morte.
Strappò via l'amuleto affidandolo alle acque. Chiuse gli occhi e si lasciò cadere nel vuoto aprendo le braccia per cercare l'aria come un uccello.
Sentì l'aria venirgli incontro veloce, fresca e tagliente come la lama di un rasoio, con la sensazione di non aver più corpo e si sentì leggero, finalmente in pace, finalmente libero di volare. E si svegliò.

mercoledì 16 gennaio 2013

La ragazza di Neve



Quell'anno l'inverno era arrivato prima del tempo. Già da qualche settimana le giornate erano sferzate da un vento gelido, ma nessuno nella carovana si sarebbe aspettato che la neve arrivasse con così grande anticipo.
Erano in marcia da diversi giorni. Una marcia forzata, dettata dalla necessità di passare il valico prima che la neve lo chiudesse. Era questione di vita o di morte. Farsi cogliere dalla tormenta sarebbe stato un guaio serio per tutti e questo il capo villaggio lo sapeva bene.
Per questo motivo quella notte non prese sonno. Doveva prendere una decisone e in fretta. Si alzò indossando la sua pesante pelliccia e uscì fuori nel cuore della notte girando fra i carri per controllare il bestiame.
L'aria era un turbinio bianco che il vento gli sferzava sulla folta barba scura. Era un uomo possente dalla voce poderosa ingabbiata in un corpo che incuteva timore a chiunque lo incontrasse. Nessuno tra gli zingari osava sfidarlo in duello e meno ancora contraddire una sua qualsiasi decisione.
Era il capo indiscusso. Governava la carovana con polso e fermezza, e tutti gli riconoscevano di essere un uomo giusto.
Si accovacciò ravvivando le braci ancora ardenti del falò che ingaggiavano una disperata battaglia contro il gelo, e riattizzò il fuoco e rimase a scaldarsi le mani, pensieroso.
Da lontano gli ululati dei lupi si facevano sempre più insistenti e vicini. Nemmeno loro riuscivano a dormire, pensò.
"Brutto segno..." Sapeva bene che quando i lupi erano così vicino a valle, voleva dire che più in alto il gelo aveva stretto la sua morsa.
Camminava nella neve trascinando i piedi per assicurarsi di quanta ne fosse caduta nel giro di poche ore. Affondava già fino al tacco dello stivale. Se avesse continuato così, all'alba i carri avrebbero faticato non poco a riprendere la marcia e raggiungere il valico sarebbe stata una vera impresa.
Proseguì verso il limitare del bosco e si fermò in ascolto.
Il vento urlava fra le gole più alte, intonando il suo controcanto con quello dei lupi. In quell'istante sembrò quasi che il vento gli parlasse. Sulle prime non ci fece caso e proseguì lungo il ciglio della strada.
Una seconda raffica, di un'intensità inaudita lo costrinse a incurvarsi sulle spalle per proseguire, e ancora quella voce gli girò attorno in un vortice spumeggiante di neve.
"Ho fame ma, non ho sete..."

Rimase interdetto. Questa volta non poteva avere dubbi. La cosa più ovvia che pensò fu di non essere solo. Si guardò attorno e vide il vortice alzarsi verso il cielo con le sembianze di una donna, per poi svanire nel nulla.
"Colpa di quella schifezza di acquavite... " pensò tirando su il bavero della pelliccia.
Aveva lasciato il suo carrozzone inquieto come quella maledetta notte in cui il gelo si era portato via l'unica donna che avesse mai amato in vita sua.
Erano passati anni, e ancora il peso di quel ricordo lo destava nel sonno ogni volta che cadeva la prima neve.
Se ne faceva una colpa per aver scelto il momento sbagliato per attraversare il valico, e anche ora doveva scegliere: proseguire e rischiare la vita di qualcuno della sua carovana o tornare indietro. Passare il valico significava svernare a Turok e trascorrere un inverno tranquillo e mite.
Non farlo significava un inverno di stenti nei piccoli villaggi di cacciatori. Affari pochi, risse tante e guai a non finire.

Si addentrò nel bosco inseguendo i fantasmi del suo passato. Alzò gli occhi al cielo e la neve gli cadeva sulle lacrime che non riuscivano a scendere e ancora quella voce a sussurrare le stesse identiche parole.
"Ho fame, ma non ho sete..."

La neve gli ricordava lei. Lei e la neve erano quasi una cosa sola. E lui gioiva nel vederla perdersi ogni volta, con quei suoi occhi da bambina incorniciati da lunghi capelli biondi. Ma da quando non c'era più, la neve era un miscuglio di gioia e di dolore.
"Ho fame, ma non ho sete..." Continuò a camminare attirato da quella voce creata dal vento e il vortice si rianimò davanti alla vista fra gli alberi del bosco.
Atterrito dalla paura si fermò cercando un via di fuga laterale che subito il vortice gli sbarrò.
"Non avere paura... io so molte cose di te..."
Adesso non aveva più alcun dubbio. Quella voce era reale, più vera di quanto fosse disposto a ammettere.
"Chi sei ? - domandò aggrottando le folte sopracciglia - Sei un Nargat, un demone, o un'illusione della mia mente malata..."
Un latrato feroce si sovrappose alle sue ultime parole. Forse i lupi avevano trovato di che sfamarsi con qualche incauta preda notturna.
"I nargat non vivono più da queste parti da molto tempo - rispose la voce - dovresti saperlo. Il signore delle tenebre li ha trasformati in roccia inerme più di duecento anni fa. Erano gli unici in grado di spezzare qualsiasi incantesimo. Io sono lo spirito di Saelina. Non hai nulla da temere da me."

Un vago ricordo di quel nome lo riportò a quando da ragazzo ascoltava gli anziani raccontare storie e leggende del suo popolo davanti ai falò nelle lunghe sere d'inverno.
"Saelina, la ragazza di neve..." disse fissando il vortice assumere le sembianze di una fanciulla.
"La ragazza di neve, si - ammise la creatura inondata da un candido bagliore - solo chi è a un passo dal baratro e ha il cuore gonfio di tormento può vedermi."
"Ho solo un vago ricordo della tua storia - rispose rivolto alla visione - ma all'epoca ero ancora un ragazzino ingenuo. Ora non credo più nelle favole. Tu sei solo frutto della mia immaginazione."
"Le cose che ci appaiono incredibili spaventano solo le persone prive di cuore e tu hai un cuore grande. Non è importante che tu ci creda o no. È importante che mi ascolti, per il bene tuo e quello della tua carovana."
Lo spirito si mosse in una danza eterea ripetendo ancora una volta il suo triste ritornello lasciando sulla neve una rossa striatura di sangue...
"Ho fame... Ma non ho sete..."
"Perché tutto quel sangue... - chiese l'uomo aggrottando la fronte - è un altro dei tuoi effetti per impressionarmi?"
Lo spirito della donna allora si fermò guardandolo con occhi di ghiaccio.
"È il prezzo che devo pagare ogni volta che il mio spirito lascia la prigione di ghiaccio in cui sono costretta a vivere. Hai mai provato a farti trapassare da mille lamine di ghiaccio?"
"Gli spiriti portano con sé visioni terribili, diceva il vecchio Zaghart - commentò l'uomo guardando lo spirito con sospetto - ma starò ad ascoltarti ugualmente. I miei spettri vengono tutte le notti a trovarmi, non sarà la tua storia a spaventarmi."
"Al tempo in cui i nargat vivevano in questi boschi - iniziò a raccontare lo spirito della fanciulla - la mia vita era felice e spensierata.
I nargat vegliavano su tutte le creature del bosco ed erano in pace con gli uomini. Erano esseri pacifici, dotati di straordinari poteri magici. Nulla per loro era impossibile. Non avevano né corpo né forma, erano puro spirito. Potevano abitare un albero, o un fiore, oppure una farfalla, o semplicemente una goccia d'acqua.
Un giorno arrivò da queste parti un oscuro cavaliere che montava un nero cavallo. Non aveva armatura, e una maschera nera celava il suo volto. Portava con sé un lunga spada e una nera catena appese alla sella.
Il suono di quella catena incuteva timore solo a sentirla strisciare sul terreno. Nessuno sapeva il suo nome, e nessuno l'aveva mai visto da queste parti a memoria d'uomo.
Il terrore scese in tutto il villaggio e anche i nargat lo temevano. Oscuri presagi di morte si erano impadroniti di noi.
Si fermò davanti alla porta della mia casa e bussò. Disse che aveva fatto un lungo viaggio. Che gli avevano parlato di una bellissima fanciulla che viveva nel nostro villaggio, e che era venuto per prenderla in moglie.

Quella fanciulla ero io. Il mio rifiuto scatenò la sua ira. Quella notte aveva iniziato a nevicare. Era la prima neve dell'anno. Il villaggio dormiva di un sonno inquieto.
Il signore delle tenebre sfoderò la sua spada di fuoco, sibilando parole oscure in un lingua sconosciuta al cui suono la sua nera catena si animò come un terribile serpente. Mi avvolse nella sua morsa gelida trascinandomi via.
I nargat vennero in mio soccorso seppur temano il fuoco che è l'unica arma in grado di distruggerli.

Si nascosero fra i fiocchi di neve che cadevano e invano tentarono di liberarmi dalla morsa della catena. L'oscuro signore con il fuoco della spada li pietrificò nella roccia della montagna, là dove ora è la mia stessa prigione di ghiaccio.
Prima di andarsene, dettò le sue condizioni.
Non avendo potuto avere il mio cuore, così sentenziò, sarei rimasta per l'eternità avvolta dal ghiaccio, custodita dalla sua catena affinché nessuno potesse mai spezzare il suo incantesimo."
Con unghie affilate lo spirito si accarezzò una guancia. Rosse striature di sangue gli segnarono il volto, cadendo sulla neve fresca.
Prese a raccontare di un giovane del villaggio che ogni giorno si recava alla cascata di ghiaccio ad ammirare la sua statua.
"Era ostinato e pieno di coraggio - disse - e non si dava pace nel tentativo di liberarmi dalla mia sofferenza.
E tanto più i suoi sforzi erano vani, tanto più il suo cuore si riempiva d'amore per me. Un giorno accatastò un'enorme pira ai piedi della cascata di ghiaccio, convinto di poter vincere il potere della maledizione e gli diede fuoco.
La pira bruciò per giorni interi senza scalfire il ghiaccio. Tuttavia la nera catena si risvegliò al calore delle fiamme e come un serpente infuocato lo inghiottì per sempre. La sua morte è solo colpa mia. Colpa della mia bellezza che rende folli gli uomini, e risveglia gli spiriti delle tenebre. La mia punizione è più che meritata. Ora comprendi la mia pena e il sangue che accompagna i miei passi."


A quel racconto anche gli alberi del bosco parvero immobili e attenti ad ascoltare. Un'espressione atterrita segnò il viso dell'uomo.
"Non dimenticherò mai il suo sguardo - disse lo spettro - e il suo sorriso quando le fiamme lo avvolsero. E le sue labbra che mormoravano ti amo.”
"Da quando la bellezza è una colpa? - rispose l'uomo - Non è tua la colpa di cui porti il peso. Quanto a quel giovane, credo che se anche tornasse in vita rifarebbe la stessa identica cosa. Al cuore non si può comandare anche quando le sue imprese appaiono folli e disperate.”
Lo spirito di Laesina emise un sospiro gelido e una nuvola di cristalli infranse l'aria in mille riflessi e si avvicinò all'uomo inondandolo di luce.
“Tu hai un peso che ancora porti con te, al pari del mio, e ancora ti tormenti. Non fu colpa tua della sua morte, eppure ti dai ancora tanta pena. Io sono qui per salvarti. Lei sa del dolore che ancora racchiude il tuo cuore. E ha pena per te. La notte in cui l'hai persa ho pianto per voi. Tu non potevi salvarla, come io non potevo salvare me stessa dal mio destino. La sua malattia la uccise. Non il freddo, non le tue decisioni. Accetta dunque il tuo destino, come io ho accettato il mio. Placa la tua rabbia e domani conduci la tua gente sul valico. Farà troppo freddo perfino per nevicare.”

Lo spirito tornò a vorticare prima ancora che l'uomo potesse parlare librandosi nell'aria fino a esplodere in una nuvola di cristalli. Quando l'aria tornò limpida aveva smesso di nevicare. L'uomo tirò un sospiro di sollievo e si avviò per la strada seguendo le proprie orme.

Nel suo carrozzone la luce della lanterna era accesa, proprio come la notte in cui la perse. Si stese sul letto senza togliersi il pastrano a pensare a quella folle visione e si addormentò con l'immagine di lei mentre ancora nella mente riecheggiava la voce dello spettro: "ho fame... ma non ho sete..."