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domenica 10 giugno 2012

Il contrabbandiere (Parte prima)





“Il tempo non torna a fare
ciò che perdiamo;
l'eternità lo conserva per il gaudio
o per il fuoco eterni”

J.L Borges





Guardò l'ora nervosamente mentre camminava lungo la banchina della stazione. L' orologio segnava le due e un quarto del pomeriggio e la condotta proveniente da Lugano ancora non arrivava. Era in ritardo di cinque minuti ma tanto bastò a renderlo irrequieto. Non doveva accadere, non quel giorno pensò. Posò a terra la borsa di cuoio in mezzo ai piedi e infilò una mano nell'impermeabile grigio sfilando un pacchetto di sigarette. Oltre a una vecchia signora con un soprabito nero con il collo di pelliccia dello stesso colore, non c'erano altre persone che aspettavano. Soffiò di lato il fumo della sigaretta che si alzò in una nuvola nella direzione del vento e gettò il cerino spento fra i binari. L'altoparlante gracchiò di un generico ritardo senza dare altre informazioni.
Riprese la borsa sbuffando e iniziò a camminare lungo il bordo del marciapiede del secondo binario, cercando di placare la crescente agitazione che lo attanagliava. Una pioggia leggera scendeva silenziosa come una patina viscida e oleosa in quella mattina di fine ottobre. L'aria odorava di ferro e di ruggine. Le nuvole basse tagliavano a metà le colline circostanti ammantandole di una lanugine grigiastra.
Due ferrovieri camminavano verso di lui parlottando fra loro. L'uomo li fermò scusandosi per l'intromissione e chiese notizie del treno.
La risposta che gli fu data lo lasciò deluso. Il ritrovamento di una bomba inesplosa lungo il tragitto rendeva la situazione più complicata del previsto motivo per il quale non gli seppero dare molte altre informazioni.
“E' probabile che il servizio venga sospeso, almeno per oggi” s'azzardò a dire uno dei due ferrovieri. Erano gli anni del primo dopoguerra e più di una volta era accaduta una cosa del genere.
L'uomo cercò di dissimulare il disappunto tenendosi stretto al petto la cartella di cuoio. Urgeva prendere una decisione.
Gettò il mozzicone fra i binari e si avviò verso il sottopassaggio camminando nervosamente. Un rivolo di sudore freddo gli scivolò sul collo quando si sentì strattonare per la manica dell'impermeabile. La signora vestita di nero gli stava domandando qualcosa a proposito del treno, con una voce stridente che lui nemmeno sentiva. Si liberò dalla presa con un'alzata di spalle, lo sguardo assente di chi aveva l'aria di trovarsi appeso sull'orlo di un abisso. Iniziò a scendere velocemente i gradini sotto la pioggia di improperi che il disappunto della signora gli stava lanciando addosso. I due ferrovieri si voltarono appena ridacchiando per la scena.
Nel sottopassaggio un' uomo con un cappotto elegante scorreva l'orario dei treni con le mani infilate nelle tasche. Gli passò accanto quasi senza notarlo. Quando s'accorse di essere seguito ormai era troppo tardi.
“Signor Rusconi... quanta fretta!” esordì l'altro mettendogli una mano sulla spalla. Riconobbe subito la voce del commissario di polizia di confine.
“Mi domandavo se per caso non conoscesse quest'uomo” disse mostrandogli una foto segnaletica.
L'uomo deglutì a fatica, colto alla sprovvista da quella domanda che arrivava diretta allo stomaco come un gancio di un boxeur. Il sudore freddo gli imperlava la fronte appena al di sotto dell'attaccatura dei capelli. Scosse il capo per dire no prima di decidersi a dare una risposta più convincente. “Mai visto in vita mia” rispose premendo con le dita sull'angolo della foto orientandola verso la luce. “E se anche lo conoscessi – aggiunse – non glielo direi”.
Il commissario era un tipo sveglio e non fece una piega alla sua risposta. Si limitò a rimettere la foto all'interno del cappotto stringendosi nelle spalle.
“E' stato trovato con la testa sfracellata appena fuori città. Sulla mulattiera.” precisò sollevando il bavero del cappotto. “Stia attento a non fare la stessa fine anche lei”. Si sfiorò la fronte con l'indice in cenno di saluto e si allontanò con le mani in tasca senza chiedergli altro.
L'uomo della foto si chiamava Rudolf Schiffman, di professione contabile e contrabbandiere per necessità ed era l'uomo che doveva incontrare.
Rimase pietrificato dalla notizia. La mente era un vortice di pensieri che si accavallavano uno sull'altro senza trovare risposte immediate. Cosa gli era successo, chi poteva essere stato, o forse era stato solo un incidente?
Uscì dalla stazione guardandosi attorno con la sensazione di essere osservato. Una vecchia berlina nera gli passò davanti tagliandogli il passo. Riconobbe il volto del commissario sul sedile del passeggero che lo osservava impassibile. La seguì con lo sguardo fino all'angolo della via principale e si allontanò nella direzione opposta camminando in fretta verso casa.
Rimpianse di non aver saputo dire di no il giorno che aveva incontrato Schiffman la prima volta, ma non poteva fare altrimenti. Gli servivano i soldi, parecchi soldi, per l'operazione della figlia. Solo per questo aveva accettato e del resto ormai era troppo tardi per tirarsi indietro.
Schiffman era stato categorico. “Se accetti questo lavoro, poi non ti potrai sfilare per nessun motivo. Quella è gente che non scherza”.
In quegli anni subito dopo la fine della guerra, erano in molti ad essere coinvolti in piccoli traffici di contrabbando, chi più chi meno, giusto per rimediare qualche soldo per tirare avanti. Lui aveva iniziato con beni di prima necessità che scambiava al mercato nero già durante il conflitto.
A guerra finita aveva continuato quello scambio illegale estendendo il suo raggio d'azione ben oltre oltre il confine. Il suo contrabbando era quasi ridicolo se paragonato a quello di Shiffman. La sua merce era di poco conto e in piccole quantità: cioccolato svizzero, sigarette americane, calze di nylon - una vera novità in quegli anni - e qualche volta orologi di marca, elvetica naturalmente.
Aveva qualche cliente nelle città della pianura. Lui li chiamava così quando giustificava le sue assenza alla moglie, Candida.
Era operaio specializzato in un piccolo laboratorio di orologeria che produceva meccanismi per una nota casa di orologi. Lui era addetto alla verifica dei bilancieri. Chino col suo monocolo sulla cassa dell'orologio talvolta rimaneva incantato ad osservare quel continuo movimento della molla che ticchettava come un piccolo cuore sotto lo sguardo di un chirurgo. Lo affascinava che qualcuno prima di lui avesse avuto l'idea di sminuzzare il tempo, il giorno, le ore per farne minuti, secondi, decimi, in un vano tentativo di tenere in scacco l'eternità.
Talvolta riusciva a portare fuori dalla fabbrica pezzi difettosi che lui risistemava e assemblava in un orologio perfettamente funzionante, che poi trovava sempre modo di vendere. In questo modo era riuscito a costruirsi un cronografo d'oro interamente progettato da lui. Non avrebbe mai potuto permettersi di comprare un' orologio così costoso. La paga settimanale che riceveva bastava appena a mantenere la moglie e la figlia Costance. Ma costruirlo si. Costruire orologi quello lo sapeva fare. E ogni volta che si allacciava il cinturino al polso, guardava la sua creazione con orgoglio.
Gli parlava con la tenerezza di un padre che si rivolge al figlio primogenito, fiero di quel suo piccolo capolavoro, costato anni di duro impegno nel poco tempo libero che riusciva a ricavare, rubando ore al sonno lavorando con la pazienza e l'ostinazione di un certosino. Ogni singolo pezzo era stato lavorato a mano, revisionato mille volte e in un momento di esaltazione aveva trovato geniale perfino l'idea di dargli un nome proprio - il primogenito di una nuova marca di orologi Comex – e venderlo sarebbe stato di cattivo auspicio.
Aveva deciso di tenerlo, promettendosi che l'avrebbe lasciato in eredità a suo figlio, se avesse avuto la fortuna di avere un figlio maschio. Gli orologi erano una cosa da maschi, come il calcio, le scommesse, le bevute all'osteria e il gioco delle carte.
Dopo la nascita di Costance ci avevano provato molte altre volte senza riuscirci. Sembrava che il destino fosse accanito nel dirgli di no. Forse doveva solo portare pazienza e tutto sarebbe andato come voleva. Se lo sentiva che avrebbe avuto un figlio maschio. Un figlio di cui vantarsi coi colleghi, un figlio sano.
Si vergognava quando si ritrovava a fare questo tipo di considerazioni, per quanto avrebbe dato la vita per Costance o anche solo per alleviare la sofferenza che le vedeva negli occhi e ogni volta che rincasava, una parte di lui si abbandonava al desiderio di una semplice normalità.
In fabbrica ormai non era più capace di tollerare le battutine fatte alle sue spalle dai colleghi, o quando entrava nel laboratorio e tutti si facevano silenziosi o cambiavano repentinamente argomento fingendo di parlare d'altro, tra una risatina e l'altra. Non amava essere compatito.
La piccola Costance era il frutto di un amore travolgente che aveva finito per spegnersi dopo l'incidente di parto. Il forcipe usato in modo improprio aveva causato dei danni cerebrali e motori che ora la costringevano all'età di otto anni a una vita rannicchiata su una sedia a rotelle, precipitando la loro in un baratro di dolore.
Un dolore carico di astio verso tutto e tutti incapace di sciogliersi in un abbraccio, di trovare quiete in un sorriso. Un dolore sordo, alimentato da continui scambi di accuse che aveva finito per soffocare il loro giovane amore.
Poi un giorno la speranza di una nuova operazione, stavolta risolutiva, aveva detto il chirurgo. E per questo si era lasciato convincere da Schiffman ad accettare quell'incarico. Durante la guerra alcuni contrabbandieri si facevano pagare molto bene da ricchi ebrei per sfuggire alle persecuzioni naziste. E la polizia svizzera di confine era ben disposta a chiudere un occhio verso questo tipo di traffici. Ora, a guerra finita quel genere di traffici erano terminati, o quasi. 
[continua]

Il Contrabbandiere (parte seconda)

Rientrò in casa che erano passate da poco le cinque del pomeriggio. La notizia della morte del suo socio gli scavava lo stomaco con la stessa velocità di un uragano. Salutò la moglie con un bacio sulla fronte e posò la borsa di cuoio sulla sedia dell'ingresso vicino alla pendola. Il suo ticchettio scandiva il tempo nel silenzio di quel corridoio angusto e grigio. Per un attimo si fermò a guardare il suo volto scarno, riflesso nel vetro dell'orologio prima di ricaricarlo, ripetendo quel gesto con la lentezza esasperante di un rituale scaramantico. Appese l'impermeabile nel disimpegno e si sentì stanco, improvvisamente stanco di un giorno apparentemente senza fine.
"Come mai sei arrivato così presto oggi, non dovevi incontrarti con quel tale dopo il lavoro?". La domanda della moglie lo colse impreparato.
"Si, ma non è venuto. Non so come mai. Ho aspettato per un po' ma..."
Non dette altre spiegazioni e del resto sua moglie non ne chiese. I dialoghi fra loro ormai erano delle semplici comunicazioni di servizio fra due mondi sempre più distanti.
Nel salottino si lasciò sprofondare nella poltrona vicino alla figlia che ciondolava il capo sulla carrozzina. Raccolse da terra un rotocalco e lo ripose sul tavolino. Con il bavaglio asciugò un filo di bava che le scendeva dalla bocca. Il capo che dondolava aritmicamente a destra e sinistra, contenta di vederlo. Quel sorriso stentato ma sincero sostenuto da quei due occhietti lucidi della bimba gli consegnarono l'unico vero attimo di serenità in quel giorno così confuso, fermando il tempo e con esso i pensieri.
"Prima che mi dimentichi, hanno telefonato per te. Ma non so chi fosse. Hanno chiuso subito ."
La notizia lo riportò immediatamente alla realtà di quel giorno. Si domandò ancora una volta chi avesse potuto uccidere il suo socio e per quale motivo. Poteva essere collegato in qualche modo all'identità del personaggio a cui dovevano far passare il confine? Schiffman era stato chiaro. Meno domande ti fai e più possibilità avrai di portare a casa la pelle. Era dunque questo il motivo? Si era fatto troppe domande? Era per questo che era morto? Chi si nascondeva dietro l'identità del fuggiasco?
Per quanto ci pensasse nessuna delle supposizioni che gli balenavano alla mente lo convinceva. Era arrivato il momento di aprire la busta che Schiffman gli aveva passato. "Questa nascondila bene da qualche parte - gli aveva detto consegnandola - dovesse andare storto qualcosa, qui dentro c'è la tua salvezza e forse anche la mia."
Ricordava quel momento non senza una certa dose di agitazione. Lui, che i compagni di lavoro soprannominato il pendolo, per via del suo atteggiamento distaccato nei confronti della vita, sempre uguale, sempre costante, senza che lasciasse trasparire un'emozione. Eppure quel giorno davanti a Schiffman aveva provato paura. Una paura vera, tanto vera da toccarla con mano. Tanto vera da disegnare rivoli di sudore anche sul viso tirato del suo socio.
Attese che la moglie si coricasse e prese la busta nascosta dietro la pendola. Sedette al tavolo in cucina l'aprì nel silenzio assordante che lo circondava. Tirò fuori il contenuto disponendo davanti a sé un passaporto, una mazzetta di dollari, un biglietto ferroviario per Parigi e un bigliettino di un ristorante di rue de Boìs.
Riconobbe la calligrafia di Schiffman su un foglietto. "Se stai leggendo questo foglio vuol dire che il tuo socio è nei guai e spero per entrambi che non sia troppo tardi. Chiama il numero che ti ho segnato appena puoi e ti diranno cosa fare. Non pensare di rivolgerti alla polizia, e non pensare di scappare. Per loro sai già troppe cose."
Oltre alla firma e al numero di telefono non c'erano altre indicazioni.
Prese il passaporto di nazionalità elvetica e lo sfogliò con il pollice e l'indice fino alla foto, poi se lo rigirò sottosopra. Rimase a fissare quel viso paffuto e senza sorriso. Il cranio rasato e lucente. Portava gli occhiali dalla montatura spessa e quadra che conferivano al viso un'aria da dottore.
"Aron Winkler" disse ripetendo il nome riportato sul documento. "Sposato, di professione chirurgo. Via Querciola, 5. Locarno".
Serrò le labbra poco convinto. Il nome gli apparve subito una forzatura un pò ingenua per un passaporto falso.
"Se questo è un ebreo, io sono il presidente della confederazione" disse ripetendo involontariamente quelle parole che giungevano direttamente dal suo passato. Il volto del padre e la sua voce gli vennero in soccorso inondandogli la mente di ricordi, quando ancora bambino si faceva scudo della madre per scampare alle punizioni che rimediava.
"Se quello lì è un santo, io sono il presidente della confederazione". Finiva sempre così quando la madre tentava di difenderlo per qualche sua marachella. E sapeva anche che il ceffone, meritato e che il padre gli aveva promesso, sarebbe arrivato con la puntualità di un telegramma quando meno se lo aspettava.
Alla luce della candela osservò la filigrana del documento e lo richiuse posandolo sul tavolo. Prese la mazzetta di dollari e li contò. Erano ottocento dollari. Una cifra di tutto rispetto per quei tempi. Girò e rigirò il bigliettino del ristorante mentre cercava di riordinare le idee.
Perché Schiffman gli aveva mentito parlando di un ufficiale dell'armata rossa che voleva andare in America, definendolo un lavoretto facile facile.
"Prendi in consegna il tipo, gli fai passare il confine, lo metti sul treno. Incassi e fine."
Se ne andò a dormire ma quella notte il sonno lo raggiunse solo alle prime luci dell'alba. Continuamente pensava a quelle poche tessere di quel mosaico confuso che non riusciva a ricostruire. Quello che gli sembrava certo ora, era che tutta questa faccenda poteva costargli molto cara. E se gli fosse successo qualcosa, che ne sarebbe stato della sua famiglia?
Al mattino osservò il suo viso tirato allo specchio mentre si radeva. Gli occhi arrossati da quella notte tormentata. Si vestì e mise al polso il suo orologio d'oro come se fosse un giorno di festa. Contrariamente alle circostanze si sentiva calmo. Sapeva che il destino gli stava andando incontro. Sapeva che non poteva sottrarsi alla ineluttabilità delle cose. Salutò la moglie con un gesto affettuoso che lo riportò ai loro primi tempi, quando la vita gli sorrideva piena di sorprese e speranze. Poi si chinò a baciare la figlia sulla fronte. "Papà torna presto, piccola". Le carezzò il viso e uscì senza voltarsi, con la sua solita borsa sotto il braccio.
Il tempo era grigio. Non pioveva e già questo era un sollievo pensò. Nuvole bianche attraversavano veloci il fianco della montagna e il freddo era tagliente. Percorse il tragitto che lo conduceva al laboratorio e si infilò nel bar all'angolo. Prese un caffè e si fece passare la linea nella cabina.
I tre squilli del telefono gli rimbombarono in testa segnando il tempo con una lentezza esasperante. Al quarto stava per riagganciare quando gli rispose una voce di donna dall'accento tedesco molto marcato.
"Pronto chi parla?" Il tono della donna era freddo e distaccato.
"Schiffman mi ha detto di chiamare. Che avrei ricevuto istruzioni." rispose in modo sbrigativo rendendosi conto troppo tardi di non aver pensato a cosa dire. Si era trovato davanti al telefono e aveva composto il numero ed era del tutto impreparato a una conversazione di quel tipo.
La donna rispose di attendere e posò il ricevitore. Passarono alcuni minuti prima che si rifacesse viva.
"Ha con sé i documenti?" domandò dando per scontato che sapesse di cosa stesse parlando.
Si li aveva. Li aveva messi già dalla sera prima nella sua borsa.
"Bene. Prenda il primo treno per l'Italia e richiami quando sarà oltre confine. Scenda alla prima fermata. E non faccia sciocchezze."
Rispose che di lui si potevano fidare, che non c'era bisogno di minacciare niente e nessuno, ma la donna replicò domandandogli se avesse notizie del suo amico. "Come sta Schiffman? Ho saputo che ultimamente non è stato molto bene. Veda di non ammalarsi anche lei."
Il suono sordo e continuo del telefono gli annunciò che la comunicazione era stata interrotta. Posò il ricevitore e uscì dalla cabina. In piedi vicino al bancone del bar il commissario di confine lo stava aspettando.


[continua]

Il Contrabbandiere (parte terza)


"Siamo mattinieri, Rusconi" disse il commissario senza sollevare il capo dalla tazzina di caffè che aveva davanti.
"Se hai da sfamare due persone - rispose controvoglia - il giorno comincia sempre troppo tardi e la sera arriva sempre troppo presto."
Il commissario accese una sigaretta e soffiò il fumo di lato girando il cucchiaino nella tazzina.
"Se ti lamenti tu che un lavoro ce l'hai, Rusconi, pensa un po' invece a chi si trova disoccupato o in mezzo a una strada. Non gli passa più."
Chiese il conto della telefonata e pagò. Il commissario non sembrava essere li per caso, anzi, quando fece per andarsene lo trattenne posandogli una mano sul braccio.
"È il caso che facciamo due chiacchiere tu ed io.."
Incrociò il suo sguardo e capì che non gli avrebbe dato tregua. Osservò l'ora e la fretta di dover prendere il treno lo assalì.
Tentò di divagare dicendo che era in ritardo per il lavoro, ma il commissario lo incalzò. Fece un cenno d'intesa al barista, il quale annuì mentre asciugava un bicchiere indicandogli la saletta del biliardo.
"Hai mai sentito parlare di un ufficiale russo?" L'uomo si stava già muovendo verso la porta della saletta. Si fermò tenendola aperta. "Secondo me, si." E gli fece segno di entrare con una mano.
Sapeva di tenerlo in pugno. Al commissario bastavano un paio di sguardi e poche parole misurate per i tipi come lui. Sembrava che si divertisse a metterlo in difficoltà, giocando con la stessa aria sorniona di un gatto col topo.
Lo ascoltò come uno scolaretto redarguito dal preside e si malediceva per essersi lasciato coinvolgere in una storia tanto rischiosa. Certo l'aveva fatto per una nobile causa ma ora rischiava seriamente di compromettere il futuro suo e della sua famiglia. E se questo fosse accaduto non se lo sarebbe mai perdonato.
"Stiamo cercando un gerarca delle SS. Si chiama Albert Lang. È da quasi un anno che lo stiamo braccando, come tutte le polizie di mezzo mondo. Finora ci è sempre sfuggito per un soffio. E alcuni informatori, tra i quali il tuo socio, ci hanno confermato la sua presenza in Italia. Sta cercando di passare il confine spacciandosi per un generale russo che vuole consegnarsi agli americani. In realtà è a Parigi che vuole andare, dove ad attenderlo ci sono persone in grado di farlo espatriare in Sud America. Gli servono documenti falsi e in Italia le sue coperture stanno saltando una dopo l'altra."
Il commissario fece una pausa e si accese un'altra sigaretta. Scrutò la sua reazione soffiandogli il fumo in faccia.
"Per me può andare dove vuole, io non conosco nessun generale russo."
Mentiva tentando una difesa disperata della sua posizione. Liberarsi del poliziotto e poi avrebbe deciso il da farsi. Fece per andarsene ma quando il commissario riprese a parlare, la rabbia gli si soffocò in gola.
"Allora non ti interesserà sapere che questo nazista di merda era a capo di un lager e che la sua specialità era liberarsi di tutti coloro che avessero un qualunque tipo di problema, fisico o mentale. Malati di mente, handicappati, omosessuali. Ma la sua vera passione erano gli spastici. Con quelli, pare, si divertisse proprio. Lo chiamavano l'Inquisitore. Vuoi che ti spieghi anche il perché?"
Scrollò la cenere della sigaretta nel posacenere del biliardo, sentiva che il colpo aveva colpito nel segno dal silenzio del suo interlocutore.
"Se non lo vuoi fare per te, almeno fallo per tua figlia. Questo glielo devi. Certo non per Schiffman. Quello era un coglione doppiogiochista che voleva spillare soldi a noi e anche al crucco e agli americani, ma gli è andata male. E tu non sarai così sciocco da voler fare la stessa fine, vero? Loro sanno di te. E il solo sospetto che tu fossi in combutta con lui fa già di te un morto che cammina."
Sapeva di averlo in pugno, e quelle parole arrivarono nella sua testa con la stessa furia di un monsone.
"Tu ce lo consegni e noi ti garantiamo un lasciapassare per te e la tua famiglia per l'America. - concluse spegnendo il mozzicone - In America ci sono i migliori dottori del mondo magari possono fare qualcosa anche per lei. Per tua figlia intendo. Questo lo capisci, Rusconi?"
Lasciò il bar in preda ad una crescente agitazione. Dopo l'accordo con il commissario adesso era tutta una corsa contro il tempo. E con un po' di fortuna ce l'avrebbe anche fatta a prendere il treno per l'Italia.
Non erano passate nemmeno tre ore da quando era uscito di casa. Dal finestrino del treno osservava il paesaggio scorrere con insolita lentezza.
Le unghiate della pioggia imperlavano di goccioline la superficie opaca del vetro. Nella testa ancora l'eco delle parole del commissario. "Se non lo vuoi fare per te... Fallo per tua figlia..."
A stento tratteneva la rabbia tenendosi stretta al petto la sua borsa di cuoio, maledicendo sé stesso, il commissario, Schiffman e il suo tedesco.
"Se solo osano toccare la mia famiglia..." bisbigliava quando il controllore gli toccò la spalla facendolo sobbalzare. Si scusò in qualche modo pur non avendo nulla di cui scusarsi. Il controllore gli rivolse solo uno sguardo distaccato senza nemmeno comprendere il perché di quelle scuse.
Sul sedile di fronte ma sul lato opposto al suo, un uomo lo stava fissando.
Portava un cappotto pesante grigio e un capello di un colore appena più scuro. Aveva la barba incolta, gli zigomi molto pronunciati e due occhi scuri che lo fissavano di continuo. Di sicuro doveva essere un forestiero, pensò.
Da quanto tempo era lì? Come era possibile che non l'avesse notato prima.
Il treno rallentò la marcia avvicinandosi alla stazione di confine e l'uomo si alzò muovendosi verso di lui con le mani in tasca.
Quando gli sfilò accanto si fermò un istante porgendogli un biglietto appena prima che il treno si fermasse.
"Questo glielo manda sua moglie.." Si chinò verso di lui posandogli una mano sulla spalla parlando con uno spiccato accento francese. " a proposito ... Costance è un gran bel nome per quella piccola storpia.."
Il respiro gli si bloccò in gola prima di realizzare per intero il significato di quelle parole. Si alzò di scatto incapace di decidere cosa fare, ma l'uomo si era già dileguato fra la folla sulla banchina della stazione di confine.
Si ritrovò di nuovo seduto con quel bigliettino fra le dita. Sul retro era annotato un numero di telefono italiano e tra parentesi poche e sintetiche parole di avvertimento. "se fallisci, loro muoiono."
La sosta al confine durò solo una mezz'ora. Gli sembrava che il tempo si fosse contratto e lo spazio dilatato verso un baratro che gli offuscava i pensieri. Doveva decidere cosa fare e in fretta e senza commettere errori che sarebbero stati fatali. Lo attanagliava il dubbio che sua moglie e la figlia fossero già nelle loro mani e il pensiero gli devastò l'anima. O era solo una minaccia.
Quando arrivò erano le undici del mattino. Scese dal treno mescolandosi ai passeggeri in transito nella stazione. Un timido raggio di sole lottava fra nuvole grigiastre in cerca di spazio. Cercò un telefono e compose il numero di casa. Nessuna risposta. Appoggiò il ricevitore e riprovò. Si fece forza nella convinzione che la moglie fosse uscita come per far prendere aria alla bimba, così diceva.
Si impose di mantenere la calma e compose il numero sul retro del bigliettino.
Una voce di donna rispose chiedendo chi fosse. Avrebbe voluto rispondere che ormai non sapeva più chi fosse e nemmeno per quale motivo stava chiamando, ma all'insistenza della signorina disse semplicemente che era il contrabbandiere.
Spiegò i dettagli del trasferimento del dottore, così come li aveva concordati con il commissario.
Disse che dopo la morte di Schiffman i controlli alle frontiere erano diventati più rigidi, che era normale ma che lui sapeva come evitarli a differenza del suo socio ma che bisognava muoversi subito.
Malgrado la calma apparente con cui parlava, dentro era un vulcano sul punto di esplodere. Un rivolo di sudore gli imperlò la fronte quando riagganciò. Era riuscito a convincerli che tutto doveva svolgersi il giorno stesso, alle dieci di sera. "Niente valige, bisognava viaggiare leggeri", così disse.
Adesso doveva solo avvisare il commissario come stabilito. All'ufficio postale mandò un telegramma in codice per confermare l'operazione.
Ripartì in treno verso la pianura. Doveva simulare ciò che aveva raccontato al tedesco riguardo ai suoi traffici di contrabbando. "Sarò di ritorno a sera tardi, devo consegnare della merce. Dica al dottore di trovarsi dietro lo scalo merci, vicino alla croce degli Invalidi, alle dieci in punto. Se non ci siete l'operazione salta."
Ironia della sorte la Croce degli Invalidi era una piccola cappella che segnava l'inizio di una vecchia mulattiera usata per i traffici di contrabbando durante la guerra.
Era sicuro che sarebbe stato seguito. Qualcosa gli diceva che controllavano ogni sua mossa. Sperò solo che il commissario avesse preso le giuste contromisure per non lasciarlo solo alla loro mercé.
Arrivò a destinazione verso le tre del pomeriggio. Il titolare del negozio dove di solito si recava, lo considerava alla stregua di un amico. Vendeva articoli per la casa, stoviglie e pentole. In paese lo chiamavano il "toulé" per via del negozio dove un tempo lo stagnaro riparava pentole e paioli. Nel periodo che precedeva il Natale, le vetrine del negozio pullulavano di visi di bambini che guardavano i giocattoli esposti in vetrina. Era una persona di buon cuore, con lo sguardo profondo. I capelli neri portati alla mascagna, con un filo leggero di brillantina. Un sorriso cordiale incorniciato da un paio di baffi sottili. Avevano finito per stringere un'amicizia leale e sincera e più di una volta si era intrattenuto volentieri con lui a parlare un po' di tutto. Gli raccontava della moglie in dolce attesa del suo primogenito, della sua passione per l'arte, o della guerra, finita in un campo di prigionia al quale per fortuna era scampato.
E lui ricambiava quel sentimento portandogli le ultime novità che valeva la pena di vendere in quel piccolo paesino sulle sponde del Ticino.
Ricordò il giorno in cui quasi per caso si era trovato davanti alla vetrina di quel negozio sull'angolo della piazza. Era rimasto colpito dalla cura con la quale la merce era esposta in vetrina. Servizi da tavola, zuppiere in porcellana fin troppo fini per un paesino di campagna come quello. Si ritrovò a sorridere pensando a chi mai avrebbe potuto permettersi di comprare quella merce .
Un rintocco di campana lo riportò alla realtà di quel giorno senza fine.
Il passare dei minuti accresceva la sua angoscia. Non avere notizie certe lo gettava in uno stato di agitazione continua. Ora doveva solo fare quest'ultima consegna e poi sarebbe ritornato. Del resto, pensò, forse era preferibile non sapere. E quel pensiero accresceva il suo senso di colpa. Si fece forza del fatto che tutto sarebbe andato per il meglio, con la consapevolezza che quel giorno doveva realizzare più soldi possibile da lasciare alla sua famiglia nel caso l'operazione non fosse andata a buon fine. Doveva vendere tutta la merce, orologio compreso.
Aprì la borsa dopo i soliti saluti di rito e gli consegnò i dieci paia di calze di nylon che l'uomo gli aveva ordinato l'ultima volta che si erano visti. L'uomo gli sorrise e la controllò mentre sottolineava quanto piacesse alle donne del paese quel tipo di prodotto. Parlava con un sorriso schietto, sempre improntato a una benevola ironia sulle cose e sul mondo. Lo invidia per questo suo modo di fare così diverso da lui.
La carta da pacco sul bancone, e gli schizzi a matita che l'uomo faceva per ingannare il tempo, lo fecero sentire a casa.
“Non capirò mai perché uno come te, sia finito a fare il commerciante in un posto così” disse cercando di dissimulare il suo stato d'ansia, senza riuscirci. Gli confessò delle sue preoccupazioni per lo stato di salute della figlia, nel tentativo di nascondergli ciò che più l'angosciava.
Gli parlò dell'intervento, degli sforzi fatti per racimolare la cifra che gli serviva, che gli mancava poco davvero poco, se solo avesse trovato qualcuno che lo aiutava. Odiava dover mentire. E ancora di più odiava farlo davanti a quella persona sincera, onesta e che non meritava la sua menzogna. Slacciò il cinturino dell'orologio e lo adagiò sul banco. "Ho bisogno che mi aiuti, Giovanni".
Parlava guardando la porta vetri del negozio per non sostenere lo sguardo. "Questo orologio l'ho fatto io con le mie mani. E' d'oro. Di cronografi come questo non se ne trovano ancora molti in giro. È un pezzo unico, se solo avessi più tempo potrei venderlo anche a un buon prezzo. Ma separarmene è come separarsi da un figlio."
Alzò le spalle vincendo la vergogna che provava in quel momento facendosi forza per finire il discorso. "Se mi presti centomila lire, te lo lascio in pegno. Te li rendo appena posso. Prometto."
La cifra che gli era uscita di bocca era venuta così, senza pensarci. Era pur sempre una cifra importante per quel periodo. L'uomo rimase sorpreso. Sulle prime rispose che non disponeva di una cifra del genere e che ad ogni modo avrebbe dovuto almeno consultarsi con la moglie prima di decidere.
"Lo so, hai ragione sono soldi. - disse dispiaciuto per la situazione di imbarazzo che aveva creato - Però se ti fidi, giuro su mia figlia che te li restituisco il prima possibile."
Dalla tasca dell'impermeabile prese il documento d'identità e lo posò a fianco dell'orologio. Un senso di crescente di umiliazione lo inquietava tagliandogli le parole sul nascere. "Posso lasciarti anche questo se non ti fidi, ma non ti biasimo se non vuoi. Non importa. Farò diversamente.”
Finirono per accordarsi su una cifra di cinquantamila lire. Di più non era nemmeno in condizione di fare, disse il commerciante.
Sulla porta del negozio si salutarono come al solito cordialmente. "Questa non mi serve." Gli restituì il documento mentre gli stringeva la mano. Si guardarono negli occhi un'ultima volta con la consapevolezza che non si sarebbero mai più rivisti.
Prima di riprendere la via del ritorno si fermò all'ufficio postale del piccolo paese. L'impiegato lo guardò da sopra le lunette con aria stupita, quando vide la cifra impostata sul vaglia postale intestato alla moglie.
Si fece passare la linea nella cabina del telefono e chiamò casa. Il telefono squillò nuovamente invano. Un'ondata di terrore freddo simile a una tempesta violenta lo assalì.
Sconvolto lasciò l'ufficio. Avrebbe voluto chiamare il commissario, chiedere il suo aiuto, o se non altro metterlo al corrente della cosa. Ma gli accordi erano tassativi. Niente contatti telefonici diretti. Era troppo rischioso. Le organizzazioni che nascondevano i criminali di guerra erano ben infiltrate anche nei posti più impensabili. E un telegramma non sarebbe arrivato in tempo. Tanto valeva accelerare i tempi. Imprecò contro il tedesco, carico di rabbia, promettendo a sé stesso che l'avrebbe pagata cara.
Arrivò all'appuntamento con un'ora di anticipo sul previsto. Aveva smesso di piovere, ma il freddo era pungente. Fumava nervosamente una sigaretta dietro l'altra. Malgrado la tensione era calmo, lucido e sapeva cosa fare. Mentalmente ripassò i dettagli dell'operazione. “Devo solo portarlo fino all'albergo della Posta. Poi sarà tutto finito.” Si fece forza di quel convincimento. Doveva crederci che sarebbe andato tutto bene.
Una berlina nera si fermò nello spiazzo subito dietro la ferrovia. Spense il motore e lampeggiò tre volte come convenuto.
Gettò a terra la sigaretta e la spense con il piede. Uscì allo scoperto con le mani infilate nell'impermeabile avvicinandosi all'auto.
Il finestrino del guidatore si abbassò. Guardò le labbra rosse della donna che lo stava fissando e disse la parola d'ordine convenuta. "Salga, il dottore le vuole parlare" rispose la donna al volante, rialzando il vetro.
Salì nell'auto a fianco al guidatore. Sentiva forte il profumo della donna che fissava lo specchietto retrovisore. Le lanciò una rapida occhiata domandandosi come potesse una donna tanto bella amare un criminale di quella portata.
"Non si volti" intimò una voce alle sue spalle.
Tornò a guardare la strada oltre al parabrezza. "Dov'è la mia famiglia, cosa gli avete fatto!". La presa forte di una mano si strinse sulla sua spalla.
"Stia calmo, e rivedrà la sua famiglia prima di quanto creda."
La donna teneva le mani sul volante, avvolte in un paio di guanti bianchi, battendo nervosamente con l'indice, senza degnarlo di uno sguardo.
L'uomo parlava con accento tedesco mischiandolo con una voluta inflessione di russo.
La mano allentò la presa e l'uomo tornò a parlare. "Mi passi i documenti. Poi si tenga pronto a muoversi."
Fece una pausa. La luce di un cerino illuminò l'abitacolo spegnendosi un istante dopo. Una nuvola di fumo gli arrivò da dietro disperdendosi sul parabrezza.
Aprì la borsa e passò la busta che Schiffman gli aveva lasciato passandola nelle mani della donna con un senso di impotenza che gli troncava il respiro. Avrebbe voluto dire una qualsiasi cosa, una qualunque, ma tacque.
Scesero dall'auto in quattro. La donna si avvicinò al tedesco e lo baciò teneramente sussurrando qualcosa alle sue orecchie. Se non avesse saputo nulla di loro, li avrebbe scambiati per due amanti che si salutavano teneramente. Poi risalì in auto. I due uomini rimasero a guardarla fino a che svoltò l'angolo della ferrovia.
Il tedesco indossava una divisa militare verde scuro senza alcuna decorazione. Non portava nessun copricapo. Gli stivali neri luccicavano alla luce giallognola dell'unico lampione della via. Era un uomo alto e slanciato, il viso identico a quello che aveva visto sul falso documento di identità. Parlava con estrema calma e sicurezza.
"Allora Signor Rusconi, come vede sappiano molte cose su di lei e la sua famiglia..."
Quell'esordio, ora che erano faccia a faccia, lo raggelò. Non seppe rispondere. Il sangue gli pulsava nelle tempie come un tamburo. L'altro uomo estrasse un'arma dalla tasca del cappotto puntandogliela contro e gli fece cenno di avviarsi passandogli una torcia.
In silenzio presero il sentiero che costeggiava la cappella degli Invalidi. Passandoci di fronte fece il segno della croce e tirò dritto quasi incurante di essere seguito. Ora l'unica sua speranza era riposta nel commissario.
Camminava col capo chino sul sentiero scivoloso della mulattiera, ripassando tutti i dettagli stabiliti.
Il cammino durò circa un'ora, in un silenzio irreale rotto solo dal rumore dei passi e dalle risate che i due alle sue spalle si scambiavano in tedesco.
Riusciva solo a comprendere poche parole. E il suo nome continuamente associato a quello di Schiffman. Ridevano di lui e forse, pensò anche di sua figlia.
Il sentiero saliva tra due file di alberi di acacia e carpini. Una breccia che si inoltrava all'interno del bosco che subito si richiudeva sulla volta. L'aria era carica di umidità che trasudava dal terreno. Una leggera foschia saliva dal fogliame del sottobosco. Camminava alla luce della torcia come un condannato portato dal destino incontro al suo patibolo. Rivide la moglie nei ricordi di quella prima volta quando la incontrò per caso, mentre passava in bicicletta davanti al laboratorio. Il loro primo bacio rubato di nascosto agli occhi della gente quella prima domenica di maggio che non dimenticò mai. Rivide la figlia nelle sue mani grandi appena poco più grande di un gattino, il suo viso dolce di neonato e il bacio che le diede sulla fronte quando pronunciò per la prima volta il suo nome, Costance.
Deviarono nel bosco per il solito sentiero fino al vecchio bunker. Il freddo della canna della pistola alla nuca lo raggelò quando si fermarono. Le ginocchia gli cedettero di schianto. Poi il nulla lo inghiottì.

Il suo corpo venne ritrovato qualche mese dopo nascosto sotto un tappeto di foglie, da un ragazzino che andava per funghi. Un colpo di pistola gli traversava la nuca, come una macchia scura. L'espressione di dolore ancora stampata sul viso. Pochi passi più in là i due corpi della moglie e della figlioletta denudata, coi polsi legati dal filo spinato, orrendamente mutilato.

Nessuno seppe mai di preciso cosa accadde quella notte. Il commissario attese invano al posto convenuto di vederlo arrivare con il tedesco, con gli altri uomini della pattuglia. Quando arrivò l'alba il giorno gli pesava come un macigno, anche se quel mestiere l'aveva abituato a tutto. Tornò alla caserma e scrisse due righe su un foglio passandolo al suo attendente. "Operazione Inquisitore fallita." Gli disse che era urgente. Poi si versò da bere un goccio di whisky e si sedette. E si abbandonò al pianto.

[Fine]