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domenica 10 giugno 2012

Il contrabbandiere (Parte prima)





“Il tempo non torna a fare
ciò che perdiamo;
l'eternità lo conserva per il gaudio
o per il fuoco eterni”

J.L Borges





Guardò l'ora nervosamente mentre camminava lungo la banchina della stazione. L' orologio segnava le due e un quarto del pomeriggio e la condotta proveniente da Lugano ancora non arrivava. Era in ritardo di cinque minuti ma tanto bastò a renderlo irrequieto. Non doveva accadere, non quel giorno pensò. Posò a terra la borsa di cuoio in mezzo ai piedi e infilò una mano nell'impermeabile grigio sfilando un pacchetto di sigarette. Oltre a una vecchia signora con un soprabito nero con il collo di pelliccia dello stesso colore, non c'erano altre persone che aspettavano. Soffiò di lato il fumo della sigaretta che si alzò in una nuvola nella direzione del vento e gettò il cerino spento fra i binari. L'altoparlante gracchiò di un generico ritardo senza dare altre informazioni.
Riprese la borsa sbuffando e iniziò a camminare lungo il bordo del marciapiede del secondo binario, cercando di placare la crescente agitazione che lo attanagliava. Una pioggia leggera scendeva silenziosa come una patina viscida e oleosa in quella mattina di fine ottobre. L'aria odorava di ferro e di ruggine. Le nuvole basse tagliavano a metà le colline circostanti ammantandole di una lanugine grigiastra.
Due ferrovieri camminavano verso di lui parlottando fra loro. L'uomo li fermò scusandosi per l'intromissione e chiese notizie del treno.
La risposta che gli fu data lo lasciò deluso. Il ritrovamento di una bomba inesplosa lungo il tragitto rendeva la situazione più complicata del previsto motivo per il quale non gli seppero dare molte altre informazioni.
“E' probabile che il servizio venga sospeso, almeno per oggi” s'azzardò a dire uno dei due ferrovieri. Erano gli anni del primo dopoguerra e più di una volta era accaduta una cosa del genere.
L'uomo cercò di dissimulare il disappunto tenendosi stretto al petto la cartella di cuoio. Urgeva prendere una decisione.
Gettò il mozzicone fra i binari e si avviò verso il sottopassaggio camminando nervosamente. Un rivolo di sudore freddo gli scivolò sul collo quando si sentì strattonare per la manica dell'impermeabile. La signora vestita di nero gli stava domandando qualcosa a proposito del treno, con una voce stridente che lui nemmeno sentiva. Si liberò dalla presa con un'alzata di spalle, lo sguardo assente di chi aveva l'aria di trovarsi appeso sull'orlo di un abisso. Iniziò a scendere velocemente i gradini sotto la pioggia di improperi che il disappunto della signora gli stava lanciando addosso. I due ferrovieri si voltarono appena ridacchiando per la scena.
Nel sottopassaggio un' uomo con un cappotto elegante scorreva l'orario dei treni con le mani infilate nelle tasche. Gli passò accanto quasi senza notarlo. Quando s'accorse di essere seguito ormai era troppo tardi.
“Signor Rusconi... quanta fretta!” esordì l'altro mettendogli una mano sulla spalla. Riconobbe subito la voce del commissario di polizia di confine.
“Mi domandavo se per caso non conoscesse quest'uomo” disse mostrandogli una foto segnaletica.
L'uomo deglutì a fatica, colto alla sprovvista da quella domanda che arrivava diretta allo stomaco come un gancio di un boxeur. Il sudore freddo gli imperlava la fronte appena al di sotto dell'attaccatura dei capelli. Scosse il capo per dire no prima di decidersi a dare una risposta più convincente. “Mai visto in vita mia” rispose premendo con le dita sull'angolo della foto orientandola verso la luce. “E se anche lo conoscessi – aggiunse – non glielo direi”.
Il commissario era un tipo sveglio e non fece una piega alla sua risposta. Si limitò a rimettere la foto all'interno del cappotto stringendosi nelle spalle.
“E' stato trovato con la testa sfracellata appena fuori città. Sulla mulattiera.” precisò sollevando il bavero del cappotto. “Stia attento a non fare la stessa fine anche lei”. Si sfiorò la fronte con l'indice in cenno di saluto e si allontanò con le mani in tasca senza chiedergli altro.
L'uomo della foto si chiamava Rudolf Schiffman, di professione contabile e contrabbandiere per necessità ed era l'uomo che doveva incontrare.
Rimase pietrificato dalla notizia. La mente era un vortice di pensieri che si accavallavano uno sull'altro senza trovare risposte immediate. Cosa gli era successo, chi poteva essere stato, o forse era stato solo un incidente?
Uscì dalla stazione guardandosi attorno con la sensazione di essere osservato. Una vecchia berlina nera gli passò davanti tagliandogli il passo. Riconobbe il volto del commissario sul sedile del passeggero che lo osservava impassibile. La seguì con lo sguardo fino all'angolo della via principale e si allontanò nella direzione opposta camminando in fretta verso casa.
Rimpianse di non aver saputo dire di no il giorno che aveva incontrato Schiffman la prima volta, ma non poteva fare altrimenti. Gli servivano i soldi, parecchi soldi, per l'operazione della figlia. Solo per questo aveva accettato e del resto ormai era troppo tardi per tirarsi indietro.
Schiffman era stato categorico. “Se accetti questo lavoro, poi non ti potrai sfilare per nessun motivo. Quella è gente che non scherza”.
In quegli anni subito dopo la fine della guerra, erano in molti ad essere coinvolti in piccoli traffici di contrabbando, chi più chi meno, giusto per rimediare qualche soldo per tirare avanti. Lui aveva iniziato con beni di prima necessità che scambiava al mercato nero già durante il conflitto.
A guerra finita aveva continuato quello scambio illegale estendendo il suo raggio d'azione ben oltre oltre il confine. Il suo contrabbando era quasi ridicolo se paragonato a quello di Shiffman. La sua merce era di poco conto e in piccole quantità: cioccolato svizzero, sigarette americane, calze di nylon - una vera novità in quegli anni - e qualche volta orologi di marca, elvetica naturalmente.
Aveva qualche cliente nelle città della pianura. Lui li chiamava così quando giustificava le sue assenza alla moglie, Candida.
Era operaio specializzato in un piccolo laboratorio di orologeria che produceva meccanismi per una nota casa di orologi. Lui era addetto alla verifica dei bilancieri. Chino col suo monocolo sulla cassa dell'orologio talvolta rimaneva incantato ad osservare quel continuo movimento della molla che ticchettava come un piccolo cuore sotto lo sguardo di un chirurgo. Lo affascinava che qualcuno prima di lui avesse avuto l'idea di sminuzzare il tempo, il giorno, le ore per farne minuti, secondi, decimi, in un vano tentativo di tenere in scacco l'eternità.
Talvolta riusciva a portare fuori dalla fabbrica pezzi difettosi che lui risistemava e assemblava in un orologio perfettamente funzionante, che poi trovava sempre modo di vendere. In questo modo era riuscito a costruirsi un cronografo d'oro interamente progettato da lui. Non avrebbe mai potuto permettersi di comprare un' orologio così costoso. La paga settimanale che riceveva bastava appena a mantenere la moglie e la figlia Costance. Ma costruirlo si. Costruire orologi quello lo sapeva fare. E ogni volta che si allacciava il cinturino al polso, guardava la sua creazione con orgoglio.
Gli parlava con la tenerezza di un padre che si rivolge al figlio primogenito, fiero di quel suo piccolo capolavoro, costato anni di duro impegno nel poco tempo libero che riusciva a ricavare, rubando ore al sonno lavorando con la pazienza e l'ostinazione di un certosino. Ogni singolo pezzo era stato lavorato a mano, revisionato mille volte e in un momento di esaltazione aveva trovato geniale perfino l'idea di dargli un nome proprio - il primogenito di una nuova marca di orologi Comex – e venderlo sarebbe stato di cattivo auspicio.
Aveva deciso di tenerlo, promettendosi che l'avrebbe lasciato in eredità a suo figlio, se avesse avuto la fortuna di avere un figlio maschio. Gli orologi erano una cosa da maschi, come il calcio, le scommesse, le bevute all'osteria e il gioco delle carte.
Dopo la nascita di Costance ci avevano provato molte altre volte senza riuscirci. Sembrava che il destino fosse accanito nel dirgli di no. Forse doveva solo portare pazienza e tutto sarebbe andato come voleva. Se lo sentiva che avrebbe avuto un figlio maschio. Un figlio di cui vantarsi coi colleghi, un figlio sano.
Si vergognava quando si ritrovava a fare questo tipo di considerazioni, per quanto avrebbe dato la vita per Costance o anche solo per alleviare la sofferenza che le vedeva negli occhi e ogni volta che rincasava, una parte di lui si abbandonava al desiderio di una semplice normalità.
In fabbrica ormai non era più capace di tollerare le battutine fatte alle sue spalle dai colleghi, o quando entrava nel laboratorio e tutti si facevano silenziosi o cambiavano repentinamente argomento fingendo di parlare d'altro, tra una risatina e l'altra. Non amava essere compatito.
La piccola Costance era il frutto di un amore travolgente che aveva finito per spegnersi dopo l'incidente di parto. Il forcipe usato in modo improprio aveva causato dei danni cerebrali e motori che ora la costringevano all'età di otto anni a una vita rannicchiata su una sedia a rotelle, precipitando la loro in un baratro di dolore.
Un dolore carico di astio verso tutto e tutti incapace di sciogliersi in un abbraccio, di trovare quiete in un sorriso. Un dolore sordo, alimentato da continui scambi di accuse che aveva finito per soffocare il loro giovane amore.
Poi un giorno la speranza di una nuova operazione, stavolta risolutiva, aveva detto il chirurgo. E per questo si era lasciato convincere da Schiffman ad accettare quell'incarico. Durante la guerra alcuni contrabbandieri si facevano pagare molto bene da ricchi ebrei per sfuggire alle persecuzioni naziste. E la polizia svizzera di confine era ben disposta a chiudere un occhio verso questo tipo di traffici. Ora, a guerra finita quel genere di traffici erano terminati, o quasi. 
[continua]

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