a mio Padre
Talvolta mi succede anche il contrario:
che mi appare come irreale ciò
che ho vissuto realmente.
Heinrich Böll
Talvolta mi succede anche il contrario:
che mi appare come irreale ciò
che ho vissuto realmente.
Heinrich Böll
La
prima volta che ho sentito parlare di questa storia avevo 13 anni. E
fino da allora la
sentii mia. La feci più o meno mia e mi rimase forte la sensazione
di averla in qualche modo attraversata o forse solo sfiorata. Ad ogni
modo questa storia mi entrò dentro al punto che non sarebbe più
uscita.
Riapparve
senza volere una sera di dicembre in cui non riuscivo a prender
sonno. Era quasi mezzanotte quando iniziai a scrivere.
Una
storie di quelle in grado di cambiare la vita, le speranze, e il
destino di una persona. Una di quelle storie che ti guidano
attraverso i sogni o la realtà, ma senza inganno, senza crudeltà,
per comprendere le quali forse non basta neppure il tempo di una
esistenza intera.
Una
storia non facile da raccontare, tanto più se vissuta con lo sguardo
di un ragazzino e descritta oggi con gli occhi di un adulto ( o
presunto tale).
E
se si riferisce ad una persona cara, come può esserlo il padre per
un figlio, allora il compito di descriverla diventa ancora più
difficile, perché il passato e il presente tendono a confondersi
come in un infinito gioco di specchi, dove ogni cosa si rimescola
senza tuttavia fondersi del tutto.
Così
immergersi ora e qui in questo racconto è come immergersi in un
passato che, come spesso accade, porta direttamente a noi stessi.
***
Da
poco più di un anno era stato assunto con la qualifica di decoratore
generico in una fabbrica di porcellane e per lui, così giovane e
sposato da poco, era stata una vera fortuna. Erano gli anni del
primo dopoguerra e il ricordo della prigionia in un campo di
concentramento tedesco era ancora troppo fresco per lui. Quel lavoro
l'aveva fatto rinascere.
Si
occupava di semplici decorazioni e piccole greche fatte a mano su
piatti e vasellami destinati ai mercati più prestigiosi dell’estero
o delle grandi città.
Fin
da bambino il disegno, la pittura, e l'arte, lo avevano attratto
fortemente e solo la sfortuna degli anni passati nelle peripezie
della seconda guerra mondiale, nonché la determinata opposizione di
una madre severa e ostile, gli avevano impedito di percorre con
maggiore successo quella strada.
Ma
a lui tutto ciò non interessava. Non che non comprendesse il suo
talento, ma era come se la cosa fosse in qualche misura fosse
secondaria rispetto a un progetto di altra natura che, in modo a lui
non chiaro, finiva suo malgrado per prendere il sopravvento.
Detto
semplicemente gli stava bene così, anche perché era una persona
capace di farsi ben volere da tutti e di trarre da chiunque o da
qualunque circostanza una qualsivoglia lezione positiva.
Forse
per via di quel suo sorrisetto che spuntava dietro quei lucidi baffi
neri, usato come una specie di grimaldello per conquistarsi la
fiducia della gente. O per via del suo sguardo deciso, racchiuso da
neri capelli portati alla mascagna che incorniciavano un viso dalla
fronte alta e dal profilo attento e leggermente appuntito, in grado
di attirare non solo gli sguardi ammirati delle donne.
Forse per la facilità con cui era solito ricorrere a battute spiritose e
ironiche, veniva spesso considerato di buona compagnia dagli amici e
conoscenti, ma anche un amico sincero e prezioso.
Quel
giorno, finita l'ultima informata, appena prima dello scoccare della sirena di mezzogiorno, il principale lo mandò a
chiamare.
Posò
il pennello nel bicchiere d'acqua sporca sul bancone di
lavoro e con uno straccio si pulì le mani non senza una qualche
sorta di preoccupazione. Fece per dire qualcosa di spiritoso, ma
questa volta non gli uscì nulla, e posato lo straccio sul tavolo si
incamminò.
La
fabbrica di ceramica non era di grosse dimensioni e ciò malgrado si estendeva su un territorio abbastanza ampio.
A
fianco del capannone dove lavorava, ovvero il reparto di rifinitura e
decorazione, ce ne erano altri sparsi sui vari lati e ognuno con la
sua funzione.
Staccati
dal resto della fabbrica c'erano i forni, il deposito degli scarti e la pressa per la
frantumazione degli scarti e poco più in là un alto capannone adibito a deposto
di materiale grezzo, gessi e o argille che nelle giornate ventose
come quella depositavano su uomini e cose un leggero strato di
impalpabile polvere biancastra.
Gli
uffici erano ricavati in una dependance vicino al deposito degli
imballaggi, non distante dalla casa padronale che si trovava a
ridosso dell’ingresso.
Attraversò
il cortile con passo spedito sollevandosi il bavero del grembiule per
ripararsi in qualche modo dal vento. Era una giornata di fine
ottobre. Il cielo era sereno ma tirava un vento fresco e
frizzante. Una di quelle giornate che annunciano l’avvicinarsi
della stagione invernale e passando a fianco al piccolo deposito di
biciclette non poté fare a meno di rammaricarsi della fine
dell'estate appena trascorsa.
Era solito percorrere i venti chilometri che lo separavano da casa, più gli altrettanti
per il ritorno, pedalando di buona lena, e in estate era una sfida
piacevole da vincere oltre che un ottimo esercizio per mantenersi in
forma, ma la sola idea che da lì a qualche giorno tutto sarebbe cambiato con l'avvicinarsi dell'inverno lo mise di pessimo umore.
Così
si preparò ad affrontare il principale con la ragionevole e quanto
mai errata supposizione che gli stesse per arrivare una brutta
notizia.
Arrivò
davanti alla porta e si pulì i piedi sullo zerbino impolverato nei
confronti del quale le sue scarpe non avevano nulla da rimproverarsi.
Si spolverò velocemente il grembiule e si risistemò il bavero e
infine bussò.
"Avanti"
disse con tono deciso il principale.
Girò
la maniglia e sospinse un po’ la porta che oppose una leggera
resistenza.
"Ah,
si, accomodati Giovanni!"
Si
avvicinò a una sedia, di quelle tipiche da ufficio con le sottili
gambe in acciaio e il sedile leggermente imbottito ricoperto di una
finta pelle color bordeaux, della quale era rivestito anche il
piccolo schienale.
Si
sedette di fronte alla scrivania completamente ricoperta da carte, da
lettere di commesse, fatture, contro le
quali cercava disperatamente di lottare un portapenne nero montato su
una base di cristallo abbastanza spessa da formare una linea
verdastra ai suoi piedi e sul quale era posto anche un calendario
giornaliero coi numeri rossi e sgargianti, di quelli che da bambini
si faceva a gara per staccare il foglio del giorno appena passato per
lasciare il posto a quello nuovo.
Erano
l' unica cosa vivace e colorata di quell'ufficio un po’ triste e
grigio, nel quale l'unico vero padrone sembrava essere il caos
degnamente assistito da uno strato di polvere finissima che
ammantava ogni cosa.
Su
un tavolino metallico più basso, staccato dalla scrivania, stavano
il telefono, la macchina da scrivere e una lampada da tavolo in
ottone con il paralume in vetro verde scuro.
Il principale era un ometto di media statura, dal fisico rotondetto
e dal carattere scontroso ma mai arrogante, severo coi dipendenti ma
al tempo stesso onesto.
Aveva
i capelli rossicci pettinati all'indietro secondo la moda dell'epoca
e tutti imbrillantinati.
La
sua aria severa e il tono di voce deciso e autoritario, facevano di
lui una persona rispettata non solo all’interno della fabbrica.
Era anche una persona affabile e in taluni casi, e questo era uno di
quelli, smetteva volentieri i panni del datore di lavoro
per assumere quelli della persona alla mano, come in fin dei conti
era.
Dopo
le solite quattro chiacchiere sul tempo, sul come va la famiglia, mi
saluti tanto la sua signora Margherita, e passando indifferentemente
dal lei al tu e altri discorsi di questo tipo, il signor Pozzi gettò
sul fragile tappeto della loro discussione e senza alcun preavviso, rinunciando alla sua parlata dialettale in favore di un più
circostanziato quanto impreciso italiano, quanto aveva da dirgli.
"Senti,
Giuanin, sto cercando un responsabile per aprire una filiale in
Uruguay, a Montevideo, e te mi sembri la persona adatta. Cioè il
tipo giusto, insomma, che faccia il capo di tutta la fabbrica, un po'
come me, ma solo che deve stare là fisso, capisci, mica posso
andarci io avanti e indietro."
Incredulo
ascoltò quelle parole e rimase stupito nel leggere un certo
imbarazzo sul volto del suo principale mentre le pronunciava.
Rimase
seduto con il cuore a mille cercando di articolare una risposta
sensata degna di un'offerta di quel tipo, anche se avrebbe voluto
d'istinto rispondere con un bel... "certo che ci vado, non ci
penso due volte…"
Sebbene
la tentazione fosse fortissima, represse quello slancio di
irrefrenabile entusiasmo che lo colse.
Sapeva
bene che avrebbe dovuto chiedere il parere a sua moglie e a sua madre
o forse prima sua madre e poi a sua moglie o comunque in qualunque
ordine espresso, avrebbe dovuto rifletterci su.
E
così fece.
"E
la casa? e il viaggio? e lo stipendio?" – disse come unica
risposta.
"
Tutto pagato, è ovvio – rispose il principale cogliendo il senso
del suo esitare – va da sé che se ti propongo una cosa così è
perché tu ci guadagni un sacco di soldi in più e io pure. Certo mi rendo conto che è una decisione che non si può prendere così, su due piedi."
Il
principale si passò una mano in tasca e cercò una confezione di
sigarette americane Kent col filtro, apprezzate in realtà più che
per il loro gusto, per il pacchetto bianco con sottili righe color
avorio, con la scritta in rilievo laccato nero, che dava a chi le
fumava quel tocco di classe a buon mercato.
Si
accese una sigaretta e aspirò una boccata di fumo e ne offrì una al
suo dipendente.
"No
grazie, non fumo mai prima di sera" gli rispose sincero. Ed era
proprio così, fumava solo di sera a fine della giornata di lavoro.
Un modo come un altro per rilassarsi senza cadere nel vizio.
"Quanti
giorni ho di tempo per pensare? - chiese prima di lasciare l'ufficio
- "sa dovrei prima parlare a casa."
Il
principale sorrise molto amichevolmente e alzandosi si avviò verso
la porta facendogli capire che era ora di andare a mangiare e che
avevano già dedicato fin troppo tempo a quel discorso, tanto si
erano capiti benissimo.
“Non
c’è fretta – gli rispose – pensaci su e fammi sapere quando
hai deciso.”
Quando
rientrò nel capannone i suoi colleghi stavano già mangiando e anche
lui fece altrettanto prendendo dal suo armadietto negli spogliatoi
il tegame d' acciaio con i viveri portati da casa. Mangiò in
silenzio prestando poca attenzione ai discorsi che immancabilmente
accompagnavano la pausa.
Nessuno
gli chiese nulla, del resto era abitudine del capo chiamare
sistematicamente anche per un nonnulla i suoi dipendenti e tutti
ormai erano così abituati da non farci più nemmeno caso.
Il
viaggio di ritorno con la bicicletta fu il più veloce che avesse mai
fatto in vita sua.
La
fabbrica distava dalla sua casa circa una ventina di chilometri. A
circa metà strada c'era il bivio che portava al paese dove abitava
sua madre.
Quando
mancavano ormai poche centinaia di metri fu colto dal dubbio su cosa
fosse meglio fare: se passare prima da sua madre a chiedere un parere
oppure correre a casa dalla moglie senza nessun indugio.
Ci
pensò un camion a risolvere il dubbio tagliandogli di netto la
strada proprio a metà incrocio obbligandolo a proseguire per la sua
strada. Col cuore in gola per lo spavento percorse il resto del
percorso in men che non si dica.
Tuttavia
non poté
fare a meno di pensare al modo in cui sua madre, che esercitava su di
lui ancora una certa influenza, avrebbe potuto reagire qualora avesse
scoperto di non essere stata avvisata per prima.
Un
rapido pensiero corse al giorno in cui,
ancora ragazzino e mosso da un entusiasmo simile, entrò raggiante a
casa con tela, colori e tutto l'occorrente per dipingere.
Un
sogno da tanto tempo cullato e conquistato con
i risparmi sudati in tanti piccoli lavoretti e servizi.
Pensò
alla
delusione e alla severità con la quale questa sua iniziativa fu non
solo disapprovata ma addirittura perseguita e punita con la confisca
del materiale e la sua relativa distruzione nella stufa di casa.
"Certe
idee
è meglio togliersele dalla testa subito” – si era sentito dire –
“impara l'arte e mettila da parte. Il pittore per me è quello che
dipinge le pareti di casa mica i quadri, lazzarone."
Addolorato da quel comportamento, che tuttavia non scalfiva la
soggezione nei confronti della madre, arrivò a casa.
Trovò
la moglie vicino ai fornelli che lo accolse con un amabile sorriso. Le diede un bacio sulla guancia e posò sul tavolo la borsa con il
tegame per il pranzo. Poi andò a lavarsi e a cambiarsi.
Non
disse altro. E a tavola non sfiorò l'argomento. Voleva rifletterci bene prima di esporre l'argomento.
La
sera a letto faticò a prendere sonno. Si stese come sempre esausto,
e malgrado la fatica per l'intera giornata di lavoro e per il
viaggio, non riuscì ad addormentarsi.
La
sua mente lo proiettava in un unico grande sogno dal quale si
svegliava continuamente e nel quale continuamente si reimmergeva.
Immaginava
tutto, ogni singola cosa, ogni dettaglio, come se lo stesse già
vivendo o lo avessi in qualche modo già vissute: il viaggio in nave,
la folla, i saluti al porto, la lunga e noiosa traversata. Le lunghe
ore passate sul ponte parlare con la moglie e con le persone
incontrate.
"Lei
dove va?", "A Montevideo, vado ad aprire una fabbrica di
porcellana per conto della ditta dove lavoro, veniteci a trovare se
siete di passaggio."
Si
vedeva già in sud-America, protagonista in una nuova vita,
affrancato dagli orrori che l’esperienza della guerra aveva
lasciato nel profondo della sua anima, finalmente libero di
proiettarsi in un futuro tutto nuovo.
Il
sogno non lo lasciò per diversi giorni, come un inconscio ritorno
alla terra dei nonni, sui quali aveva ascoltato da ragazzo gli
innumerevoli racconti di sua madre che aveva trascorso alcuni anni
della sua vita in Argentina, per poi fare ritorno in giovane età in
patria.
Sognava
in continuazione sospinto dal movimento del mare. Sognava una
fabbrica tutta sua, la più bella fabbrica di ceramica
dei tutto il sud-America, la più ricercata per qualità, ogni pezzo
firmato a mano direttamente da lui.
La immaginava immersa nel verde lussureggiante di una periferia di una
grande città, così diversa dai luoghi in cui era nato e cresciuto.
La
madre ormai anziana che si dondolava su una sedia nella fresca ombra
del pomeriggio, stringendo in una mano un nero breviario e nell'altra
l'immancabile rosario.
Si
vide immerso in un nugolo di figli mentre posava per una qualche
occasione davanti alla macchina di un premuroso fotografo, insieme
alla bella moglie con i capelli soffici e lucenti, che reggeva in
braccio la piccola Luz, diminutivo di S. Teresa de la Luz, patrona
della vicina chiesa di quartiere.
E
rideva ed era felice mentre si faceva arruffare i capelli da uno dei
suoi figli minori, mentre gli altri facevano a gara per aggrapparsi
alla sua cintura o per conquistarsi un posto vicino a lui, riempiendo
l'aria di grida e schiamazzi.
Non
gli fu facile rinunciare a quel sogno. Da lì a un paio di giorni dopo
averne parlato con la moglie scoprì che erano in attesa del loro
figlio primogenito. Non se la sentì di affrontare un viaggio che era
diventato improvvisamente un'impresa troppo grande da vincere.
Almeno
questo fu quello che il tono della sua voce lasciò trasparire quando
raccontò questa storia, ma l'averci rinunciato non fu mai per lui
motivo di rimpianto, di delusione, o di commiserazione. La vita gli aveva imposto di scegliere o forse semplicemente di accettare quello che il destino gli aveva riservato, esattamente come per la pittura.
Solo un velo di rammarico si poteva cogliere nel tono della sua voce, ogni volta che per un motivo o per l'altro, gli capitava di raccontare questa storia.
E l'aver rinunciato al suo sogno, contrariamente a quanto si possa immaginare, divenne un motivo di orgoglio per aver provato almeno una volta a immaginare in quel sogno, qualcosa di grande, di inimmaginabile. Di aver tentato di sfiorarlo, e accarezzarlo come una delle tante cose belle di cui amava circondarsi: il suo sogno d’America.
Solo un velo di rammarico si poteva cogliere nel tono della sua voce, ogni volta che per un motivo o per l'altro, gli capitava di raccontare questa storia.
E l'aver rinunciato al suo sogno, contrariamente a quanto si possa immaginare, divenne un motivo di orgoglio per aver provato almeno una volta a immaginare in quel sogno, qualcosa di grande, di inimmaginabile. Di aver tentato di sfiorarlo, e accarezzarlo come una delle tante cose belle di cui amava circondarsi: il suo sogno d’America.
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RispondiEliminaQuesto blog è libero, Estella. Non è necessario cancellare un commento. Che sia positivo o negativo, lo puoi lasciare. ^^
RispondiEliminaUn bellissimo racconto, parole che parlano di ricordi di famiglia, sogni, eventi e scelte che determinano il corso della vita, ma anche parole che riportano dal passato un sentimento vivo e presente. Un bellissimo dono al tuo papà
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