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venerdì 15 giugno 2012

America



a mio Padre

Talvolta mi succede anche il contrario:
che mi appare come irreale ciò
che ho vissuto realmente.

Heinrich Böll

La prima volta che ho sentito parlare di questa storia avevo 13 anni. E fino da allora la sentii mia. La feci più o meno mia e mi rimase forte la sensazione di averla in qualche modo attraversata o forse solo sfiorata. Ad ogni modo questa storia mi entrò dentro al punto che non sarebbe più uscita.
Riapparve senza volere una sera di dicembre in cui non riuscivo a prender sonno. Era quasi mezzanotte quando iniziai a scrivere.
Una storie di quelle in grado di cambiare la vita, le speranze, e il destino di una persona. Una di quelle storie che ti guidano attraverso i sogni o la realtà, ma senza inganno, senza crudeltà, per comprendere le quali forse non basta neppure il tempo di una esistenza intera.
Una storia non facile da raccontare, tanto più se vissuta con lo sguardo di un ragazzino e descritta oggi con gli occhi di un adulto ( o presunto tale).
E se si riferisce ad una persona cara, come può esserlo il padre per un figlio, allora il compito di descriverla diventa ancora più difficile, perché il passato e il presente tendono a confondersi come in un infinito gioco di specchi, dove ogni cosa si rimescola senza tuttavia fondersi del tutto.
Così immergersi ora e qui in questo racconto è come immergersi in un passato che, come spesso accade, porta direttamente a noi stessi.

***
Da poco più di un anno era stato assunto con la qualifica di decoratore generico in una fabbrica di porcellane e per lui, così giovane e sposato da poco, era stata una vera fortuna. Erano gli anni del primo dopoguerra e il ricordo della prigionia in un campo di concentramento tedesco era ancora troppo fresco per lui. Quel lavoro l'aveva fatto rinascere.
Si occupava di semplici decorazioni e piccole greche fatte a mano su piatti e vasellami destinati ai mercati più prestigiosi dell’estero o delle grandi città.
Fin da bambino il disegno, la pittura, e l'arte, lo avevano attratto fortemente e solo la sfortuna degli anni passati nelle peripezie della seconda guerra mondiale, nonché la determinata opposizione di una madre severa e ostile, gli avevano impedito di percorre con maggiore successo quella strada.
Ma a lui tutto ciò non interessava. Non che non comprendesse il suo talento, ma era come se la cosa fosse in qualche misura fosse secondaria rispetto a un progetto di altra natura che, in modo a lui non chiaro, finiva suo malgrado per prendere il sopravvento.
Detto semplicemente gli stava bene così, anche perché era una persona capace di farsi ben volere da tutti e di trarre da chiunque o da qualunque circostanza una qualsivoglia lezione positiva.
Forse per via di quel suo sorrisetto che spuntava dietro quei lucidi baffi neri, usato come una specie di grimaldello per conquistarsi la fiducia della gente. O per via del suo sguardo deciso, racchiuso da neri capelli portati alla mascagna che incorniciavano un viso dalla fronte alta e dal profilo attento e leggermente appuntito, in grado di attirare non solo gli sguardi ammirati delle donne.
Forse per la facilità con cui era solito ricorrere a battute spiritose e ironiche, veniva spesso considerato di buona compagnia dagli amici e conoscenti, ma anche un amico sincero e prezioso.
Quel giorno, finita l'ultima informata, appena prima dello scoccare della sirena di mezzogiorno, il principale lo mandò a chiamare.
Posò il pennello nel bicchiere d'acqua sporca sul bancone di lavoro e con uno straccio si pulì le mani non senza una qualche sorta di preoccupazione. Fece per dire qualcosa di spiritoso, ma questa volta non gli uscì nulla, e posato lo straccio sul tavolo si incamminò.
La fabbrica di ceramica non era di grosse dimensioni e ciò malgrado si estendeva su un territorio abbastanza ampio.
A fianco del capannone dove lavorava, ovvero il reparto di rifinitura e decorazione, ce ne erano altri sparsi sui vari lati e ognuno con la sua funzione.
Staccati dal resto della fabbrica c'erano i forni, il deposito degli scarti e la pressa per la frantumazione degli scarti e poco più in là un alto capannone adibito a deposto di materiale grezzo, gessi e o argille che nelle giornate ventose come quella depositavano su uomini e cose un leggero strato di impalpabile polvere biancastra.
Gli uffici erano ricavati in una dependance vicino al deposito degli imballaggi, non distante dalla casa padronale che si trovava a ridosso dell’ingresso.
Attraversò il cortile con passo spedito sollevandosi il bavero del grembiule per ripararsi in qualche modo dal vento. Era una giornata di fine ottobre. Il cielo era sereno ma tirava un vento fresco e frizzante. Una di quelle giornate che annunciano l’avvicinarsi della stagione invernale e passando a fianco al piccolo deposito di biciclette non poté fare a meno di rammaricarsi della fine dell'estate appena trascorsa.
Era solito percorrere i venti chilometri che lo separavano da casa, più gli altrettanti per il ritorno, pedalando di buona lena, e in estate era una sfida piacevole da vincere oltre che un ottimo esercizio per mantenersi in forma, ma la sola idea che da lì a qualche giorno tutto sarebbe cambiato con l'avvicinarsi dell'inverno lo mise di pessimo umore.
Così si preparò ad affrontare il principale con la ragionevole e quanto mai errata supposizione che gli stesse per arrivare una brutta notizia.
Arrivò davanti alla porta e si pulì i piedi sullo zerbino impolverato nei confronti del quale le sue scarpe non avevano nulla da rimproverarsi. Si spolverò velocemente il grembiule e si risistemò il bavero e infine bussò.
"Avanti" disse con tono deciso il principale.
Girò la maniglia e sospinse un po’ la porta che oppose una leggera resistenza.
"Ah, si, accomodati Giovanni!"
Si avvicinò a una sedia, di quelle tipiche da ufficio con le sottili gambe in acciaio e il sedile leggermente imbottito ricoperto di una finta pelle color bordeaux, della quale era rivestito anche il piccolo schienale.
Si sedette di fronte alla scrivania completamente ricoperta da carte, da lettere di commesse, fatture, contro le quali cercava disperatamente di lottare un portapenne nero montato su una base di cristallo abbastanza spessa da formare una linea verdastra ai suoi piedi e sul quale era posto anche un calendario giornaliero coi numeri rossi e sgargianti, di quelli che da bambini si faceva a gara per staccare il foglio del giorno appena passato per lasciare il posto a quello nuovo.
Erano l' unica cosa vivace e colorata di quell'ufficio un po’ triste e grigio, nel quale l'unico vero padrone sembrava essere il caos degnamente assistito da uno strato di polvere finissima che ammantava ogni cosa.
Su un tavolino metallico più basso, staccato dalla scrivania, stavano il telefono, la macchina da scrivere e una lampada da tavolo in ottone con il paralume in vetro verde scuro.
Il principale era un ometto di media statura, dal fisico rotondetto e dal carattere scontroso ma mai arrogante, severo coi dipendenti ma al tempo stesso onesto.
Aveva i capelli rossicci pettinati all'indietro secondo la moda dell'epoca e tutti imbrillantinati.
La sua aria severa e il tono di voce deciso e autoritario, facevano di lui una persona rispettata non solo all’interno della fabbrica. Era anche una persona affabile e in taluni casi, e questo era uno di quelli, smetteva volentieri i panni del datore di lavoro per assumere quelli della persona alla mano, come in fin dei conti era.
Dopo le solite quattro chiacchiere sul tempo, sul come va la famiglia, mi saluti tanto la sua signora Margherita, e passando indifferentemente dal lei al tu e altri discorsi di questo tipo, il signor Pozzi gettò sul fragile tappeto della loro discussione e senza alcun preavviso, rinunciando alla sua parlata dialettale in favore di un più circostanziato quanto impreciso italiano, quanto aveva da dirgli.
"Senti, Giuanin, sto cercando un responsabile per aprire una filiale in Uruguay, a Montevideo, e te mi sembri la persona adatta. Cioè il tipo giusto, insomma, che faccia il capo di tutta la fabbrica, un po' come me, ma solo che deve stare là fisso, capisci, mica posso andarci io avanti e indietro."
Incredulo ascoltò quelle parole e rimase stupito nel leggere un certo imbarazzo sul volto del suo principale mentre le pronunciava.
Rimase seduto con il cuore a mille cercando di articolare una risposta sensata degna di un'offerta di quel tipo, anche se avrebbe voluto d'istinto rispondere con un bel... "certo che ci vado, non ci penso due volte…"
Sebbene la tentazione fosse fortissima, represse quello slancio di irrefrenabile entusiasmo che lo colse.
Sapeva bene che avrebbe dovuto chiedere il parere a sua moglie e a sua madre o forse prima sua madre e poi a sua moglie o comunque in qualunque ordine espresso, avrebbe dovuto rifletterci su.
E così fece.
"E la casa? e il viaggio? e lo stipendio?" – disse come unica risposta.
" Tutto pagato, è ovvio – rispose il principale cogliendo il senso del suo esitare – va da sé che se ti propongo una cosa così è perché tu ci guadagni un sacco di soldi in più e io pure. Certo mi rendo conto che è una decisione che non si può prendere così, su due piedi."
Il principale si passò una mano in tasca e cercò una confezione di sigarette americane Kent col filtro, apprezzate in realtà più che per il loro gusto, per il pacchetto bianco con sottili righe color avorio, con la scritta in rilievo laccato nero, che dava a chi le fumava quel tocco di classe a buon mercato.
Si accese una sigaretta e aspirò una boccata di fumo e ne offrì una al suo dipendente.
"No grazie, non fumo mai prima di sera" gli rispose sincero. Ed era proprio così, fumava solo di sera a fine della giornata di lavoro. Un modo come un altro per rilassarsi senza cadere nel vizio.
"Quanti giorni ho di tempo per pensare? - chiese prima di lasciare l'ufficio - "sa dovrei prima parlare a casa."
Il principale sorrise molto amichevolmente e alzandosi si avviò verso la porta facendogli capire che era ora di andare a mangiare e che avevano già dedicato fin troppo tempo a quel discorso, tanto si erano capiti benissimo.
Non c’è fretta – gli rispose – pensaci su e fammi sapere quando hai deciso.”

Quando rientrò nel capannone i suoi colleghi stavano già mangiando e anche lui fece altrettanto prendendo dal suo armadietto negli spogliatoi il tegame d' acciaio con i viveri portati da casa. Mangiò in silenzio prestando poca attenzione ai discorsi che immancabilmente accompagnavano la pausa.
Nessuno gli chiese nulla, del resto era abitudine del capo chiamare sistematicamente anche per un nonnulla i suoi dipendenti e tutti ormai erano così abituati da non farci più nemmeno caso.
Il viaggio di ritorno con la bicicletta fu il più veloce che avesse mai fatto in vita sua.
La fabbrica distava dalla sua casa circa una ventina di chilometri. A circa metà strada c'era il bivio che portava al paese dove abitava sua madre.
Quando mancavano ormai poche centinaia di metri fu colto dal dubbio su cosa fosse meglio fare: se passare prima da sua madre a chiedere un parere oppure correre a casa dalla moglie senza nessun indugio.
Ci pensò un camion a risolvere il dubbio tagliandogli di netto la strada proprio a metà incrocio obbligandolo a proseguire per la sua strada. Col cuore in gola per lo spavento percorse il resto del percorso in men che non si dica.
Tuttavia non poté fare a meno di pensare al modo in cui sua madre, che esercitava su di lui ancora una certa influenza, avrebbe potuto reagire qualora avesse scoperto di non essere stata avvisata per prima.
Un rapido pensiero corse al giorno in cui, ancora ragazzino e mosso da un entusiasmo simile, entrò raggiante a casa con tela, colori e tutto l'occorrente per dipingere.
Un sogno da tanto tempo cullato e conquistato con i risparmi sudati in tanti piccoli lavoretti e servizi.
Pensò alla delusione e alla severità con la quale questa sua iniziativa fu non solo disapprovata ma addirittura perseguita e punita con la confisca del materiale e la sua relativa distruzione nella stufa di casa.
"Certe idee è meglio togliersele dalla testa subito” – si era sentito dire – “impara l'arte e mettila da parte. Il pittore per me è quello che dipinge le pareti di casa mica i quadri, lazzarone."
Addolorato da quel comportamento, che tuttavia non scalfiva la soggezione nei confronti della madre, arrivò a casa.
Trovò la moglie vicino ai fornelli che lo accolse con un amabile sorriso. Le diede un bacio sulla guancia e posò sul tavolo la borsa con il tegame per il pranzo. Poi andò a lavarsi e a cambiarsi.
Non disse altro. E a tavola non sfiorò l'argomento. Voleva rifletterci bene prima di esporre l'argomento.
La sera a letto faticò a prendere sonno. Si stese come sempre esausto, e malgrado la fatica per l'intera giornata di lavoro e per il viaggio, non riuscì ad addormentarsi.
La sua mente lo proiettava in un unico grande sogno dal quale si svegliava continuamente e nel quale continuamente si reimmergeva.
Immaginava tutto, ogni singola cosa, ogni dettaglio, come se lo stesse già vivendo o lo avessi in qualche modo già vissute: il viaggio in nave, la folla, i saluti al porto, la lunga e noiosa traversata. Le lunghe ore passate sul ponte parlare con la moglie e con le persone incontrate.
"Lei dove va?", "A Montevideo, vado ad aprire una fabbrica di porcellana per conto della ditta dove lavoro, veniteci a trovare se siete di passaggio."
Si vedeva già in sud-America, protagonista in una nuova vita, affrancato dagli orrori che l’esperienza della guerra aveva lasciato nel profondo della sua anima, finalmente libero di proiettarsi in un futuro tutto nuovo.
Il sogno non lo lasciò per diversi giorni, come un inconscio ritorno alla terra dei nonni, sui quali aveva ascoltato da ragazzo gli innumerevoli racconti di sua madre che aveva trascorso alcuni anni della sua vita in Argentina, per poi fare ritorno in giovane età in patria.
Sognava in continuazione sospinto dal movimento del mare. Sognava una fabbrica tutta sua, la più bella fabbrica di ceramica dei tutto il sud-America, la più ricercata per qualità, ogni pezzo firmato a mano direttamente da lui.
La immaginava immersa nel verde lussureggiante di una periferia di una grande città, così diversa dai luoghi in cui era nato e cresciuto.
La madre ormai anziana che si dondolava su una sedia nella fresca ombra del pomeriggio, stringendo in una mano un nero breviario e nell'altra l'immancabile rosario.
Si vide immerso in un nugolo di figli mentre posava per una qualche occasione davanti alla macchina di un premuroso fotografo, insieme alla bella moglie con i capelli soffici e lucenti, che reggeva in braccio la piccola Luz, diminutivo di S. Teresa de la Luz, patrona della vicina chiesa di quartiere.
E rideva ed era felice mentre si faceva arruffare i capelli da uno dei suoi figli minori, mentre gli altri facevano a gara per aggrapparsi alla sua cintura o per conquistarsi un posto vicino a lui, riempiendo l'aria di grida e schiamazzi.
Non gli fu facile rinunciare a quel sogno. Da lì a un paio di giorni dopo averne parlato con la moglie scoprì che erano in attesa del loro figlio primogenito. Non se la sentì di affrontare un viaggio che era diventato improvvisamente un'impresa troppo grande da vincere.
Almeno questo fu quello che il tono della sua voce lasciò trasparire quando raccontò questa storia, ma l'averci rinunciato non fu mai per lui motivo di rimpianto, di delusione, o di commiserazione. La vita gli aveva imposto di scegliere o forse semplicemente di accettare quello che il destino gli aveva riservato, esattamente come per la pittura.
Solo un velo di rammarico si poteva cogliere nel tono della sua voce, ogni volta che per un motivo o per l'altro, gli capitava di raccontare questa storia. 
E l'aver rinunciato al suo sogno, contrariamente a quanto si possa immaginare, divenne un motivo di orgoglio per aver provato almeno una volta a immaginare in quel sogno, qualcosa di grande, di inimmaginabile. Di aver tentato di sfiorarlo, e accarezzarlo come una delle tante cose belle di cui amava circondarsi: il suo sogno d’America.



3 commenti:

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  2. Questo blog è libero, Estella. Non è necessario cancellare un commento. Che sia positivo o negativo, lo puoi lasciare. ^^

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  3. Un bellissimo racconto, parole che parlano di ricordi di famiglia, sogni, eventi e scelte che determinano il corso della vita, ma anche parole che riportano dal passato un sentimento vivo e presente. Un bellissimo dono al tuo papà

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