"Siamo mattinieri, Rusconi" disse il commissario senza sollevare il capo dalla tazzina di caffè che aveva davanti.
"Se hai da sfamare due persone - rispose controvoglia - il giorno comincia sempre troppo tardi e la sera arriva sempre troppo presto."
Il commissario accese una sigaretta e soffiò il fumo di lato girando il cucchiaino nella tazzina.
"Se ti lamenti tu che un lavoro ce l'hai, Rusconi, pensa un po' invece a chi si trova disoccupato o in mezzo a una strada. Non gli passa più."
Chiese il conto della telefonata e pagò. Il commissario non sembrava essere li per caso, anzi, quando fece per andarsene lo trattenne posandogli una mano sul braccio.
"È il caso che facciamo due chiacchiere tu ed io.."
Incrociò il suo sguardo e capì che non gli avrebbe dato tregua. Osservò l'ora e la fretta di dover prendere il treno lo assalì.
Tentò di divagare dicendo che era in ritardo per il lavoro, ma il commissario lo incalzò. Fece un cenno d'intesa al barista, il quale annuì mentre asciugava un bicchiere indicandogli la saletta del biliardo.
"Hai mai sentito parlare di un ufficiale russo?" L'uomo si stava già muovendo verso la porta della saletta. Si fermò tenendola aperta. "Secondo me, si." E gli fece segno di entrare con una mano.
Sapeva di tenerlo in pugno. Al commissario bastavano un paio di sguardi e poche parole misurate per i tipi come lui. Sembrava che si divertisse a metterlo in difficoltà, giocando con la stessa aria sorniona di un gatto col topo.
Lo ascoltò come uno scolaretto redarguito dal preside e si malediceva per essersi lasciato coinvolgere in una storia tanto rischiosa. Certo l'aveva fatto per una nobile causa ma ora rischiava seriamente di compromettere il futuro suo e della sua famiglia. E se questo fosse accaduto non se lo sarebbe mai perdonato.
"Stiamo cercando un gerarca delle SS. Si chiama Albert Lang. È da quasi un anno che lo stiamo braccando, come tutte le polizie di mezzo mondo. Finora ci è sempre sfuggito per un soffio. E alcuni informatori, tra i quali il tuo socio, ci hanno confermato la sua presenza in Italia. Sta cercando di passare il confine spacciandosi per un generale russo che vuole consegnarsi agli americani. In realtà è a Parigi che vuole andare, dove ad attenderlo ci sono persone in grado di farlo espatriare in Sud America. Gli servono documenti falsi e in Italia le sue coperture stanno saltando una dopo l'altra."
Il commissario fece una pausa e si accese un'altra sigaretta. Scrutò la sua reazione soffiandogli il fumo in faccia.
"Per me può andare dove vuole, io non conosco nessun generale russo."
Mentiva tentando una difesa disperata della sua posizione. Liberarsi del poliziotto e poi avrebbe deciso il da farsi. Fece per andarsene ma quando il commissario riprese a parlare, la rabbia gli si soffocò in gola.
"Allora non ti interesserà sapere che questo nazista di merda era a capo di un lager e che la sua specialità era liberarsi di tutti coloro che avessero un qualunque tipo di problema, fisico o mentale. Malati di mente, handicappati, omosessuali. Ma la sua vera passione erano gli spastici. Con quelli, pare, si divertisse proprio. Lo chiamavano l'Inquisitore. Vuoi che ti spieghi anche il perché?"
Scrollò la cenere della sigaretta nel posacenere del biliardo, sentiva che il colpo aveva colpito nel segno dal silenzio del suo interlocutore.
"Se non lo vuoi fare per te, almeno fallo per tua figlia. Questo glielo devi. Certo non per Schiffman. Quello era un coglione doppiogiochista che voleva spillare soldi a noi e anche al crucco e agli americani, ma gli è andata male. E tu non sarai così sciocco da voler fare la stessa fine, vero? Loro sanno di te. E il solo sospetto che tu fossi in combutta con lui fa già di te un morto che cammina."
Sapeva di averlo in pugno, e quelle parole arrivarono nella sua testa con la stessa furia di un monsone.
"Tu ce lo consegni e noi ti garantiamo un lasciapassare per te e la tua famiglia per l'America. - concluse spegnendo il mozzicone - In America ci sono i migliori dottori del mondo magari possono fare qualcosa anche per lei. Per tua figlia intendo. Questo lo capisci, Rusconi?"
Lasciò il bar in preda ad una crescente agitazione. Dopo l'accordo con il commissario adesso era tutta una corsa contro il tempo. E con un po' di fortuna ce l'avrebbe anche fatta a prendere il treno per l'Italia.
Non erano passate nemmeno tre ore da quando era uscito di casa. Dal finestrino del treno osservava il paesaggio scorrere con insolita lentezza.
Le unghiate della pioggia imperlavano di goccioline la superficie opaca del vetro. Nella testa ancora l'eco delle parole del commissario. "Se non lo vuoi fare per te... Fallo per tua figlia..."
A stento tratteneva la rabbia tenendosi stretta al petto la sua borsa di cuoio, maledicendo sé stesso, il commissario, Schiffman e il suo tedesco.
"Se solo osano toccare la mia famiglia..." bisbigliava quando il controllore gli toccò la spalla facendolo sobbalzare. Si scusò in qualche modo pur non avendo nulla di cui scusarsi. Il controllore gli rivolse solo uno sguardo distaccato senza nemmeno comprendere il perché di quelle scuse.
Sul sedile di fronte ma sul lato opposto al suo, un uomo lo stava fissando.
Portava un cappotto pesante grigio e un capello di un colore appena più scuro. Aveva la barba incolta, gli zigomi molto pronunciati e due occhi scuri che lo fissavano di continuo. Di sicuro doveva essere un forestiero, pensò.
Da quanto tempo era lì? Come era possibile che non l'avesse notato prima.
Il treno rallentò la marcia avvicinandosi alla stazione di confine e l'uomo si alzò muovendosi verso di lui con le mani in tasca.
Quando gli sfilò accanto si fermò un istante porgendogli un biglietto appena prima che il treno si fermasse.
"Questo glielo manda sua moglie.." Si chinò verso di lui posandogli una mano sulla spalla parlando con uno spiccato accento francese. " a proposito ... Costance è un gran bel nome per quella piccola storpia.."
Il respiro gli si bloccò in gola prima di realizzare per intero il significato di quelle parole. Si alzò di scatto incapace di decidere cosa fare, ma l'uomo si era già dileguato fra la folla sulla banchina della stazione di confine.
Si ritrovò di nuovo seduto con quel bigliettino fra le dita. Sul retro era annotato un numero di telefono italiano e tra parentesi poche e sintetiche parole di avvertimento. "se fallisci, loro muoiono."
La sosta al confine durò solo una mezz'ora. Gli sembrava che il tempo si fosse contratto e lo spazio dilatato verso un baratro che gli offuscava i pensieri. Doveva decidere cosa fare e in fretta e senza commettere errori che sarebbero stati fatali. Lo attanagliava il dubbio che sua moglie e la figlia fossero già nelle loro mani e il pensiero gli devastò l'anima. O era solo una minaccia.
Quando arrivò erano le undici del mattino. Scese dal treno mescolandosi ai passeggeri in transito nella stazione. Un timido raggio di sole lottava fra nuvole grigiastre in cerca di spazio. Cercò un telefono e compose il numero di casa. Nessuna risposta. Appoggiò il ricevitore e riprovò. Si fece forza nella convinzione che la moglie fosse uscita come per far prendere aria alla bimba, così diceva.
Si impose di mantenere la calma e compose il numero sul retro del bigliettino.
Una voce di donna rispose chiedendo chi fosse. Avrebbe voluto rispondere che ormai non sapeva più chi fosse e nemmeno per quale motivo stava chiamando, ma all'insistenza della signorina disse semplicemente che era il contrabbandiere.
Spiegò i dettagli del trasferimento del dottore, così come li aveva concordati con il commissario.
Disse che dopo la morte di Schiffman i controlli alle frontiere erano diventati più rigidi, che era normale ma che lui sapeva come evitarli a differenza del suo socio ma che bisognava muoversi subito.
Malgrado la calma apparente con cui parlava, dentro era un vulcano sul punto di esplodere. Un rivolo di sudore gli imperlò la fronte quando riagganciò. Era riuscito a convincerli che tutto doveva svolgersi il giorno stesso, alle dieci di sera. "Niente valige, bisognava viaggiare leggeri", così disse.
Adesso doveva solo avvisare il commissario come stabilito. All'ufficio postale mandò un telegramma in codice per confermare l'operazione.
Ripartì in treno verso la pianura. Doveva simulare ciò che aveva raccontato al tedesco riguardo ai suoi traffici di contrabbando. "Sarò di ritorno a sera tardi, devo consegnare della merce. Dica al dottore di trovarsi dietro lo scalo merci, vicino alla croce degli Invalidi, alle dieci in punto. Se non ci siete l'operazione salta."
Ironia della sorte la Croce degli Invalidi era una piccola cappella che segnava l'inizio di una vecchia mulattiera usata per i traffici di contrabbando durante la guerra.
Era sicuro che sarebbe stato seguito. Qualcosa gli diceva che controllavano ogni sua mossa. Sperò solo che il commissario avesse preso le giuste contromisure per non lasciarlo solo alla loro mercé.
Arrivò a destinazione verso le tre del pomeriggio. Il titolare del negozio dove di solito si recava, lo considerava alla stregua di un amico. Vendeva articoli per la casa, stoviglie e pentole. In paese lo chiamavano il "toulé" per via del negozio dove un tempo lo stagnaro riparava pentole e paioli. Nel periodo che precedeva il Natale, le vetrine del negozio pullulavano di visi di bambini che guardavano i giocattoli esposti in vetrina. Era una persona di buon cuore, con lo sguardo profondo. I capelli neri portati alla mascagna, con un filo leggero di brillantina. Un sorriso cordiale incorniciato da un paio di baffi sottili. Avevano finito per stringere un'amicizia leale e sincera e più di una volta si era intrattenuto volentieri con lui a parlare un po' di tutto. Gli raccontava della moglie in dolce attesa del suo primogenito, della sua passione per l'arte, o della guerra, finita in un campo di prigionia al quale per fortuna era scampato.
E lui ricambiava quel sentimento portandogli le ultime novità che valeva la pena di vendere in quel piccolo paesino sulle sponde del Ticino.
Ricordò il giorno in cui quasi per caso si era trovato davanti alla vetrina di quel negozio sull'angolo della piazza. Era rimasto colpito dalla cura con la quale la merce era esposta in vetrina. Servizi da tavola, zuppiere in porcellana fin troppo fini per un paesino di campagna come quello. Si ritrovò a sorridere pensando a chi mai avrebbe potuto permettersi di comprare quella merce .
Un rintocco di campana lo riportò alla realtà di quel giorno senza fine.
Il passare dei minuti accresceva la sua angoscia. Non avere notizie certe lo gettava in uno stato di agitazione continua. Ora doveva solo fare quest'ultima consegna e poi sarebbe ritornato. Del resto, pensò, forse era preferibile non sapere. E quel pensiero accresceva il suo senso di colpa. Si fece forza del fatto che tutto sarebbe andato per il meglio, con la consapevolezza che quel giorno doveva realizzare più soldi possibile da lasciare alla sua famiglia nel caso l'operazione non fosse andata a buon fine. Doveva vendere tutta la merce, orologio compreso.
Aprì la borsa dopo i soliti saluti di rito e gli consegnò i dieci paia di calze di nylon che l'uomo gli aveva ordinato l'ultima volta che si erano visti. L'uomo gli sorrise e la controllò mentre sottolineava quanto piacesse alle donne del paese quel tipo di prodotto. Parlava con un sorriso schietto, sempre improntato a una benevola ironia sulle cose e sul mondo. Lo invidia per questo suo modo di fare così diverso da lui.
La carta da pacco sul bancone, e gli schizzi a matita che l'uomo faceva per ingannare il tempo, lo fecero sentire a casa.
“Non capirò mai perché uno come te, sia finito a fare il commerciante in un posto così” disse cercando di dissimulare il suo stato d'ansia, senza riuscirci. Gli confessò delle sue preoccupazioni per lo stato di salute della figlia, nel tentativo di nascondergli ciò che più l'angosciava.
Gli parlò dell'intervento, degli sforzi fatti per racimolare la cifra che gli serviva, che gli mancava poco davvero poco, se solo avesse trovato qualcuno che lo aiutava. Odiava dover mentire. E ancora di più odiava farlo davanti a quella persona sincera, onesta e che non meritava la sua menzogna. Slacciò il cinturino dell'orologio e lo adagiò sul banco. "Ho bisogno che mi aiuti, Giovanni".
Parlava guardando la porta vetri del negozio per non sostenere lo sguardo. "Questo orologio l'ho fatto io con le mie mani. E' d'oro. Di cronografi come questo non se ne trovano ancora molti in giro. È un pezzo unico, se solo avessi più tempo potrei venderlo anche a un buon prezzo. Ma separarmene è come separarsi da un figlio."
Alzò le spalle vincendo la vergogna che provava in quel momento facendosi forza per finire il discorso. "Se mi presti centomila lire, te lo lascio in pegno. Te li rendo appena posso. Prometto."
La cifra che gli era uscita di bocca era venuta così, senza pensarci. Era pur sempre una cifra importante per quel periodo. L'uomo rimase sorpreso. Sulle prime rispose che non disponeva di una cifra del genere e che ad ogni modo avrebbe dovuto almeno consultarsi con la moglie prima di decidere.
"Lo so, hai ragione sono soldi. - disse dispiaciuto per la situazione di imbarazzo che aveva creato - Però se ti fidi, giuro su mia figlia che te li restituisco il prima possibile."
Dalla tasca dell'impermeabile prese il documento d'identità e lo posò a fianco dell'orologio. Un senso di crescente di umiliazione lo inquietava tagliandogli le parole sul nascere. "Posso lasciarti anche questo se non ti fidi, ma non ti biasimo se non vuoi. Non importa. Farò diversamente.”
Finirono per accordarsi su una cifra di cinquantamila lire. Di più non era nemmeno in condizione di fare, disse il commerciante.
Sulla porta del negozio si salutarono come al solito cordialmente. "Questa non mi serve." Gli restituì il documento mentre gli stringeva la mano. Si guardarono negli occhi un'ultima volta con la consapevolezza che non si sarebbero mai più rivisti.
Prima di riprendere la via del ritorno si fermò all'ufficio postale del piccolo paese. L'impiegato lo guardò da sopra le lunette con aria stupita, quando vide la cifra impostata sul vaglia postale intestato alla moglie.
Si fece passare la linea nella cabina del telefono e chiamò casa. Il telefono squillò nuovamente invano. Un'ondata di terrore freddo simile a una tempesta violenta lo assalì.
Sconvolto lasciò l'ufficio. Avrebbe voluto chiamare il commissario, chiedere il suo aiuto, o se non altro metterlo al corrente della cosa. Ma gli accordi erano tassativi. Niente contatti telefonici diretti. Era troppo rischioso. Le organizzazioni che nascondevano i criminali di guerra erano ben infiltrate anche nei posti più impensabili. E un telegramma non sarebbe arrivato in tempo. Tanto valeva accelerare i tempi. Imprecò contro il tedesco, carico di rabbia, promettendo a sé stesso che l'avrebbe pagata cara.
Arrivò all'appuntamento con un'ora di anticipo sul previsto. Aveva smesso di piovere, ma il freddo era pungente. Fumava nervosamente una sigaretta dietro l'altra. Malgrado la tensione era calmo, lucido e sapeva cosa fare. Mentalmente ripassò i dettagli dell'operazione. “Devo solo portarlo fino all'albergo della Posta. Poi sarà tutto finito.” Si fece forza di quel convincimento. Doveva crederci che sarebbe andato tutto bene.
Una berlina nera si fermò nello spiazzo subito dietro la ferrovia. Spense il motore e lampeggiò tre volte come convenuto.
Gettò a terra la sigaretta e la spense con il piede. Uscì allo scoperto con le mani infilate nell'impermeabile avvicinandosi all'auto.
Il finestrino del guidatore si abbassò. Guardò le labbra rosse della donna che lo stava fissando e disse la parola d'ordine convenuta. "Salga, il dottore le vuole parlare" rispose la donna al volante, rialzando il vetro.
Salì nell'auto a fianco al guidatore. Sentiva forte il profumo della donna che fissava lo specchietto retrovisore. Le lanciò una rapida occhiata domandandosi come potesse una donna tanto bella amare un criminale di quella portata.
"Non si volti" intimò una voce alle sue spalle.
Tornò a guardare la strada oltre al parabrezza. "Dov'è la mia famiglia, cosa gli avete fatto!". La presa forte di una mano si strinse sulla sua spalla.
"Stia calmo, e rivedrà la sua famiglia prima di quanto creda."
La donna teneva le mani sul volante, avvolte in un paio di guanti bianchi, battendo nervosamente con l'indice, senza degnarlo di uno sguardo.
L'uomo parlava con accento tedesco mischiandolo con una voluta inflessione di russo.
La mano allentò la presa e l'uomo tornò a parlare. "Mi passi i documenti. Poi si tenga pronto a muoversi."
Fece una pausa. La luce di un cerino illuminò l'abitacolo spegnendosi un istante dopo. Una nuvola di fumo gli arrivò da dietro disperdendosi sul parabrezza.
Aprì la borsa e passò la busta che Schiffman gli aveva lasciato passandola nelle mani della donna con un senso di impotenza che gli troncava il respiro. Avrebbe voluto dire una qualsiasi cosa, una qualunque, ma tacque.
Scesero dall'auto in quattro. La donna si avvicinò al tedesco e lo baciò teneramente sussurrando qualcosa alle sue orecchie. Se non avesse saputo nulla di loro, li avrebbe scambiati per due amanti che si salutavano teneramente. Poi risalì in auto. I due uomini rimasero a guardarla fino a che svoltò l'angolo della ferrovia.
Il tedesco indossava una divisa militare verde scuro senza alcuna decorazione. Non portava nessun copricapo. Gli stivali neri luccicavano alla luce giallognola dell'unico lampione della via. Era un uomo alto e slanciato, il viso identico a quello che aveva visto sul falso documento di identità. Parlava con estrema calma e sicurezza.
"Allora Signor Rusconi, come vede sappiano molte cose su di lei e la sua famiglia..."
Quell'esordio, ora che erano faccia a faccia, lo raggelò. Non seppe rispondere. Il sangue gli pulsava nelle tempie come un tamburo. L'altro uomo estrasse un'arma dalla tasca del cappotto puntandogliela contro e gli fece cenno di avviarsi passandogli una torcia.
In silenzio presero il sentiero che costeggiava la cappella degli Invalidi. Passandoci di fronte fece il segno della croce e tirò dritto quasi incurante di essere seguito. Ora l'unica sua speranza era riposta nel commissario.
Camminava col capo chino sul sentiero scivoloso della mulattiera, ripassando tutti i dettagli stabiliti.
Il cammino durò circa un'ora, in un silenzio irreale rotto solo dal rumore dei passi e dalle risate che i due alle sue spalle si scambiavano in tedesco.
Riusciva solo a comprendere poche parole. E il suo nome continuamente associato a quello di Schiffman. Ridevano di lui e forse, pensò anche di sua figlia.
Il sentiero saliva tra due file di alberi di acacia e carpini. Una breccia che si inoltrava all'interno del bosco che subito si richiudeva sulla volta. L'aria era carica di umidità che trasudava dal terreno. Una leggera foschia saliva dal fogliame del sottobosco. Camminava alla luce della torcia come un condannato portato dal destino incontro al suo patibolo. Rivide la moglie nei ricordi di quella prima volta quando la incontrò per caso, mentre passava in bicicletta davanti al laboratorio. Il loro primo bacio rubato di nascosto agli occhi della gente quella prima domenica di maggio che non dimenticò mai. Rivide la figlia nelle sue mani grandi appena poco più grande di un gattino, il suo viso dolce di neonato e il bacio che le diede sulla fronte quando pronunciò per la prima volta il suo nome, Costance.
Deviarono nel bosco per il solito sentiero fino al vecchio bunker. Il freddo della canna della pistola alla nuca lo raggelò quando si fermarono. Le ginocchia gli cedettero di schianto. Poi il nulla lo inghiottì.
Il suo corpo venne ritrovato qualche mese dopo nascosto sotto un tappeto di foglie, da un ragazzino che andava per funghi. Un colpo di pistola gli traversava la nuca, come una macchia scura. L'espressione di dolore ancora stampata sul viso. Pochi passi più in là i due corpi della moglie e della figlioletta denudata, coi polsi legati dal filo spinato, orrendamente mutilato.
Nessuno seppe mai di preciso cosa accadde quella notte. Il commissario attese invano al posto convenuto di vederlo arrivare con il tedesco, con gli altri uomini della pattuglia. Quando arrivò l'alba il giorno gli pesava come un macigno, anche se quel mestiere l'aveva abituato a tutto. Tornò alla caserma e scrisse due righe su un foglio passandolo al suo attendente. "Operazione Inquisitore fallita." Gli disse che era urgente. Poi si versò da bere un goccio di whisky e si sedette. E si abbandonò al pianto.
"Se hai da sfamare due persone - rispose controvoglia - il giorno comincia sempre troppo tardi e la sera arriva sempre troppo presto."
Il commissario accese una sigaretta e soffiò il fumo di lato girando il cucchiaino nella tazzina.
"Se ti lamenti tu che un lavoro ce l'hai, Rusconi, pensa un po' invece a chi si trova disoccupato o in mezzo a una strada. Non gli passa più."
Chiese il conto della telefonata e pagò. Il commissario non sembrava essere li per caso, anzi, quando fece per andarsene lo trattenne posandogli una mano sul braccio.
"È il caso che facciamo due chiacchiere tu ed io.."
Incrociò il suo sguardo e capì che non gli avrebbe dato tregua. Osservò l'ora e la fretta di dover prendere il treno lo assalì.
Tentò di divagare dicendo che era in ritardo per il lavoro, ma il commissario lo incalzò. Fece un cenno d'intesa al barista, il quale annuì mentre asciugava un bicchiere indicandogli la saletta del biliardo.
"Hai mai sentito parlare di un ufficiale russo?" L'uomo si stava già muovendo verso la porta della saletta. Si fermò tenendola aperta. "Secondo me, si." E gli fece segno di entrare con una mano.
Sapeva di tenerlo in pugno. Al commissario bastavano un paio di sguardi e poche parole misurate per i tipi come lui. Sembrava che si divertisse a metterlo in difficoltà, giocando con la stessa aria sorniona di un gatto col topo.
Lo ascoltò come uno scolaretto redarguito dal preside e si malediceva per essersi lasciato coinvolgere in una storia tanto rischiosa. Certo l'aveva fatto per una nobile causa ma ora rischiava seriamente di compromettere il futuro suo e della sua famiglia. E se questo fosse accaduto non se lo sarebbe mai perdonato.
"Stiamo cercando un gerarca delle SS. Si chiama Albert Lang. È da quasi un anno che lo stiamo braccando, come tutte le polizie di mezzo mondo. Finora ci è sempre sfuggito per un soffio. E alcuni informatori, tra i quali il tuo socio, ci hanno confermato la sua presenza in Italia. Sta cercando di passare il confine spacciandosi per un generale russo che vuole consegnarsi agli americani. In realtà è a Parigi che vuole andare, dove ad attenderlo ci sono persone in grado di farlo espatriare in Sud America. Gli servono documenti falsi e in Italia le sue coperture stanno saltando una dopo l'altra."
Il commissario fece una pausa e si accese un'altra sigaretta. Scrutò la sua reazione soffiandogli il fumo in faccia.
"Per me può andare dove vuole, io non conosco nessun generale russo."
Mentiva tentando una difesa disperata della sua posizione. Liberarsi del poliziotto e poi avrebbe deciso il da farsi. Fece per andarsene ma quando il commissario riprese a parlare, la rabbia gli si soffocò in gola.
"Allora non ti interesserà sapere che questo nazista di merda era a capo di un lager e che la sua specialità era liberarsi di tutti coloro che avessero un qualunque tipo di problema, fisico o mentale. Malati di mente, handicappati, omosessuali. Ma la sua vera passione erano gli spastici. Con quelli, pare, si divertisse proprio. Lo chiamavano l'Inquisitore. Vuoi che ti spieghi anche il perché?"
Scrollò la cenere della sigaretta nel posacenere del biliardo, sentiva che il colpo aveva colpito nel segno dal silenzio del suo interlocutore.
"Se non lo vuoi fare per te, almeno fallo per tua figlia. Questo glielo devi. Certo non per Schiffman. Quello era un coglione doppiogiochista che voleva spillare soldi a noi e anche al crucco e agli americani, ma gli è andata male. E tu non sarai così sciocco da voler fare la stessa fine, vero? Loro sanno di te. E il solo sospetto che tu fossi in combutta con lui fa già di te un morto che cammina."
Sapeva di averlo in pugno, e quelle parole arrivarono nella sua testa con la stessa furia di un monsone.
"Tu ce lo consegni e noi ti garantiamo un lasciapassare per te e la tua famiglia per l'America. - concluse spegnendo il mozzicone - In America ci sono i migliori dottori del mondo magari possono fare qualcosa anche per lei. Per tua figlia intendo. Questo lo capisci, Rusconi?"
Lasciò il bar in preda ad una crescente agitazione. Dopo l'accordo con il commissario adesso era tutta una corsa contro il tempo. E con un po' di fortuna ce l'avrebbe anche fatta a prendere il treno per l'Italia.
Non erano passate nemmeno tre ore da quando era uscito di casa. Dal finestrino del treno osservava il paesaggio scorrere con insolita lentezza.
Le unghiate della pioggia imperlavano di goccioline la superficie opaca del vetro. Nella testa ancora l'eco delle parole del commissario. "Se non lo vuoi fare per te... Fallo per tua figlia..."
A stento tratteneva la rabbia tenendosi stretta al petto la sua borsa di cuoio, maledicendo sé stesso, il commissario, Schiffman e il suo tedesco.
"Se solo osano toccare la mia famiglia..." bisbigliava quando il controllore gli toccò la spalla facendolo sobbalzare. Si scusò in qualche modo pur non avendo nulla di cui scusarsi. Il controllore gli rivolse solo uno sguardo distaccato senza nemmeno comprendere il perché di quelle scuse.
Sul sedile di fronte ma sul lato opposto al suo, un uomo lo stava fissando.
Portava un cappotto pesante grigio e un capello di un colore appena più scuro. Aveva la barba incolta, gli zigomi molto pronunciati e due occhi scuri che lo fissavano di continuo. Di sicuro doveva essere un forestiero, pensò.
Da quanto tempo era lì? Come era possibile che non l'avesse notato prima.
Il treno rallentò la marcia avvicinandosi alla stazione di confine e l'uomo si alzò muovendosi verso di lui con le mani in tasca.
Quando gli sfilò accanto si fermò un istante porgendogli un biglietto appena prima che il treno si fermasse.
"Questo glielo manda sua moglie.." Si chinò verso di lui posandogli una mano sulla spalla parlando con uno spiccato accento francese. " a proposito ... Costance è un gran bel nome per quella piccola storpia.."
Il respiro gli si bloccò in gola prima di realizzare per intero il significato di quelle parole. Si alzò di scatto incapace di decidere cosa fare, ma l'uomo si era già dileguato fra la folla sulla banchina della stazione di confine.
Si ritrovò di nuovo seduto con quel bigliettino fra le dita. Sul retro era annotato un numero di telefono italiano e tra parentesi poche e sintetiche parole di avvertimento. "se fallisci, loro muoiono."
La sosta al confine durò solo una mezz'ora. Gli sembrava che il tempo si fosse contratto e lo spazio dilatato verso un baratro che gli offuscava i pensieri. Doveva decidere cosa fare e in fretta e senza commettere errori che sarebbero stati fatali. Lo attanagliava il dubbio che sua moglie e la figlia fossero già nelle loro mani e il pensiero gli devastò l'anima. O era solo una minaccia.
Quando arrivò erano le undici del mattino. Scese dal treno mescolandosi ai passeggeri in transito nella stazione. Un timido raggio di sole lottava fra nuvole grigiastre in cerca di spazio. Cercò un telefono e compose il numero di casa. Nessuna risposta. Appoggiò il ricevitore e riprovò. Si fece forza nella convinzione che la moglie fosse uscita come per far prendere aria alla bimba, così diceva.
Si impose di mantenere la calma e compose il numero sul retro del bigliettino.
Una voce di donna rispose chiedendo chi fosse. Avrebbe voluto rispondere che ormai non sapeva più chi fosse e nemmeno per quale motivo stava chiamando, ma all'insistenza della signorina disse semplicemente che era il contrabbandiere.
Spiegò i dettagli del trasferimento del dottore, così come li aveva concordati con il commissario.
Disse che dopo la morte di Schiffman i controlli alle frontiere erano diventati più rigidi, che era normale ma che lui sapeva come evitarli a differenza del suo socio ma che bisognava muoversi subito.
Malgrado la calma apparente con cui parlava, dentro era un vulcano sul punto di esplodere. Un rivolo di sudore gli imperlò la fronte quando riagganciò. Era riuscito a convincerli che tutto doveva svolgersi il giorno stesso, alle dieci di sera. "Niente valige, bisognava viaggiare leggeri", così disse.
Adesso doveva solo avvisare il commissario come stabilito. All'ufficio postale mandò un telegramma in codice per confermare l'operazione.
Ripartì in treno verso la pianura. Doveva simulare ciò che aveva raccontato al tedesco riguardo ai suoi traffici di contrabbando. "Sarò di ritorno a sera tardi, devo consegnare della merce. Dica al dottore di trovarsi dietro lo scalo merci, vicino alla croce degli Invalidi, alle dieci in punto. Se non ci siete l'operazione salta."
Ironia della sorte la Croce degli Invalidi era una piccola cappella che segnava l'inizio di una vecchia mulattiera usata per i traffici di contrabbando durante la guerra.
Era sicuro che sarebbe stato seguito. Qualcosa gli diceva che controllavano ogni sua mossa. Sperò solo che il commissario avesse preso le giuste contromisure per non lasciarlo solo alla loro mercé.
Arrivò a destinazione verso le tre del pomeriggio. Il titolare del negozio dove di solito si recava, lo considerava alla stregua di un amico. Vendeva articoli per la casa, stoviglie e pentole. In paese lo chiamavano il "toulé" per via del negozio dove un tempo lo stagnaro riparava pentole e paioli. Nel periodo che precedeva il Natale, le vetrine del negozio pullulavano di visi di bambini che guardavano i giocattoli esposti in vetrina. Era una persona di buon cuore, con lo sguardo profondo. I capelli neri portati alla mascagna, con un filo leggero di brillantina. Un sorriso cordiale incorniciato da un paio di baffi sottili. Avevano finito per stringere un'amicizia leale e sincera e più di una volta si era intrattenuto volentieri con lui a parlare un po' di tutto. Gli raccontava della moglie in dolce attesa del suo primogenito, della sua passione per l'arte, o della guerra, finita in un campo di prigionia al quale per fortuna era scampato.
E lui ricambiava quel sentimento portandogli le ultime novità che valeva la pena di vendere in quel piccolo paesino sulle sponde del Ticino.
Ricordò il giorno in cui quasi per caso si era trovato davanti alla vetrina di quel negozio sull'angolo della piazza. Era rimasto colpito dalla cura con la quale la merce era esposta in vetrina. Servizi da tavola, zuppiere in porcellana fin troppo fini per un paesino di campagna come quello. Si ritrovò a sorridere pensando a chi mai avrebbe potuto permettersi di comprare quella merce .
Un rintocco di campana lo riportò alla realtà di quel giorno senza fine.
Il passare dei minuti accresceva la sua angoscia. Non avere notizie certe lo gettava in uno stato di agitazione continua. Ora doveva solo fare quest'ultima consegna e poi sarebbe ritornato. Del resto, pensò, forse era preferibile non sapere. E quel pensiero accresceva il suo senso di colpa. Si fece forza del fatto che tutto sarebbe andato per il meglio, con la consapevolezza che quel giorno doveva realizzare più soldi possibile da lasciare alla sua famiglia nel caso l'operazione non fosse andata a buon fine. Doveva vendere tutta la merce, orologio compreso.
Aprì la borsa dopo i soliti saluti di rito e gli consegnò i dieci paia di calze di nylon che l'uomo gli aveva ordinato l'ultima volta che si erano visti. L'uomo gli sorrise e la controllò mentre sottolineava quanto piacesse alle donne del paese quel tipo di prodotto. Parlava con un sorriso schietto, sempre improntato a una benevola ironia sulle cose e sul mondo. Lo invidia per questo suo modo di fare così diverso da lui.
La carta da pacco sul bancone, e gli schizzi a matita che l'uomo faceva per ingannare il tempo, lo fecero sentire a casa.
“Non capirò mai perché uno come te, sia finito a fare il commerciante in un posto così” disse cercando di dissimulare il suo stato d'ansia, senza riuscirci. Gli confessò delle sue preoccupazioni per lo stato di salute della figlia, nel tentativo di nascondergli ciò che più l'angosciava.
Gli parlò dell'intervento, degli sforzi fatti per racimolare la cifra che gli serviva, che gli mancava poco davvero poco, se solo avesse trovato qualcuno che lo aiutava. Odiava dover mentire. E ancora di più odiava farlo davanti a quella persona sincera, onesta e che non meritava la sua menzogna. Slacciò il cinturino dell'orologio e lo adagiò sul banco. "Ho bisogno che mi aiuti, Giovanni".
Parlava guardando la porta vetri del negozio per non sostenere lo sguardo. "Questo orologio l'ho fatto io con le mie mani. E' d'oro. Di cronografi come questo non se ne trovano ancora molti in giro. È un pezzo unico, se solo avessi più tempo potrei venderlo anche a un buon prezzo. Ma separarmene è come separarsi da un figlio."
Alzò le spalle vincendo la vergogna che provava in quel momento facendosi forza per finire il discorso. "Se mi presti centomila lire, te lo lascio in pegno. Te li rendo appena posso. Prometto."
La cifra che gli era uscita di bocca era venuta così, senza pensarci. Era pur sempre una cifra importante per quel periodo. L'uomo rimase sorpreso. Sulle prime rispose che non disponeva di una cifra del genere e che ad ogni modo avrebbe dovuto almeno consultarsi con la moglie prima di decidere.
"Lo so, hai ragione sono soldi. - disse dispiaciuto per la situazione di imbarazzo che aveva creato - Però se ti fidi, giuro su mia figlia che te li restituisco il prima possibile."
Dalla tasca dell'impermeabile prese il documento d'identità e lo posò a fianco dell'orologio. Un senso di crescente di umiliazione lo inquietava tagliandogli le parole sul nascere. "Posso lasciarti anche questo se non ti fidi, ma non ti biasimo se non vuoi. Non importa. Farò diversamente.”
Finirono per accordarsi su una cifra di cinquantamila lire. Di più non era nemmeno in condizione di fare, disse il commerciante.
Sulla porta del negozio si salutarono come al solito cordialmente. "Questa non mi serve." Gli restituì il documento mentre gli stringeva la mano. Si guardarono negli occhi un'ultima volta con la consapevolezza che non si sarebbero mai più rivisti.
Prima di riprendere la via del ritorno si fermò all'ufficio postale del piccolo paese. L'impiegato lo guardò da sopra le lunette con aria stupita, quando vide la cifra impostata sul vaglia postale intestato alla moglie.
Si fece passare la linea nella cabina del telefono e chiamò casa. Il telefono squillò nuovamente invano. Un'ondata di terrore freddo simile a una tempesta violenta lo assalì.
Sconvolto lasciò l'ufficio. Avrebbe voluto chiamare il commissario, chiedere il suo aiuto, o se non altro metterlo al corrente della cosa. Ma gli accordi erano tassativi. Niente contatti telefonici diretti. Era troppo rischioso. Le organizzazioni che nascondevano i criminali di guerra erano ben infiltrate anche nei posti più impensabili. E un telegramma non sarebbe arrivato in tempo. Tanto valeva accelerare i tempi. Imprecò contro il tedesco, carico di rabbia, promettendo a sé stesso che l'avrebbe pagata cara.
Arrivò all'appuntamento con un'ora di anticipo sul previsto. Aveva smesso di piovere, ma il freddo era pungente. Fumava nervosamente una sigaretta dietro l'altra. Malgrado la tensione era calmo, lucido e sapeva cosa fare. Mentalmente ripassò i dettagli dell'operazione. “Devo solo portarlo fino all'albergo della Posta. Poi sarà tutto finito.” Si fece forza di quel convincimento. Doveva crederci che sarebbe andato tutto bene.
Una berlina nera si fermò nello spiazzo subito dietro la ferrovia. Spense il motore e lampeggiò tre volte come convenuto.
Gettò a terra la sigaretta e la spense con il piede. Uscì allo scoperto con le mani infilate nell'impermeabile avvicinandosi all'auto.
Il finestrino del guidatore si abbassò. Guardò le labbra rosse della donna che lo stava fissando e disse la parola d'ordine convenuta. "Salga, il dottore le vuole parlare" rispose la donna al volante, rialzando il vetro.
Salì nell'auto a fianco al guidatore. Sentiva forte il profumo della donna che fissava lo specchietto retrovisore. Le lanciò una rapida occhiata domandandosi come potesse una donna tanto bella amare un criminale di quella portata.
"Non si volti" intimò una voce alle sue spalle.
Tornò a guardare la strada oltre al parabrezza. "Dov'è la mia famiglia, cosa gli avete fatto!". La presa forte di una mano si strinse sulla sua spalla.
"Stia calmo, e rivedrà la sua famiglia prima di quanto creda."
La donna teneva le mani sul volante, avvolte in un paio di guanti bianchi, battendo nervosamente con l'indice, senza degnarlo di uno sguardo.
L'uomo parlava con accento tedesco mischiandolo con una voluta inflessione di russo.
La mano allentò la presa e l'uomo tornò a parlare. "Mi passi i documenti. Poi si tenga pronto a muoversi."
Fece una pausa. La luce di un cerino illuminò l'abitacolo spegnendosi un istante dopo. Una nuvola di fumo gli arrivò da dietro disperdendosi sul parabrezza.
Aprì la borsa e passò la busta che Schiffman gli aveva lasciato passandola nelle mani della donna con un senso di impotenza che gli troncava il respiro. Avrebbe voluto dire una qualsiasi cosa, una qualunque, ma tacque.
Scesero dall'auto in quattro. La donna si avvicinò al tedesco e lo baciò teneramente sussurrando qualcosa alle sue orecchie. Se non avesse saputo nulla di loro, li avrebbe scambiati per due amanti che si salutavano teneramente. Poi risalì in auto. I due uomini rimasero a guardarla fino a che svoltò l'angolo della ferrovia.
Il tedesco indossava una divisa militare verde scuro senza alcuna decorazione. Non portava nessun copricapo. Gli stivali neri luccicavano alla luce giallognola dell'unico lampione della via. Era un uomo alto e slanciato, il viso identico a quello che aveva visto sul falso documento di identità. Parlava con estrema calma e sicurezza.
"Allora Signor Rusconi, come vede sappiano molte cose su di lei e la sua famiglia..."
Quell'esordio, ora che erano faccia a faccia, lo raggelò. Non seppe rispondere. Il sangue gli pulsava nelle tempie come un tamburo. L'altro uomo estrasse un'arma dalla tasca del cappotto puntandogliela contro e gli fece cenno di avviarsi passandogli una torcia.
In silenzio presero il sentiero che costeggiava la cappella degli Invalidi. Passandoci di fronte fece il segno della croce e tirò dritto quasi incurante di essere seguito. Ora l'unica sua speranza era riposta nel commissario.
Camminava col capo chino sul sentiero scivoloso della mulattiera, ripassando tutti i dettagli stabiliti.
Il cammino durò circa un'ora, in un silenzio irreale rotto solo dal rumore dei passi e dalle risate che i due alle sue spalle si scambiavano in tedesco.
Riusciva solo a comprendere poche parole. E il suo nome continuamente associato a quello di Schiffman. Ridevano di lui e forse, pensò anche di sua figlia.
Il sentiero saliva tra due file di alberi di acacia e carpini. Una breccia che si inoltrava all'interno del bosco che subito si richiudeva sulla volta. L'aria era carica di umidità che trasudava dal terreno. Una leggera foschia saliva dal fogliame del sottobosco. Camminava alla luce della torcia come un condannato portato dal destino incontro al suo patibolo. Rivide la moglie nei ricordi di quella prima volta quando la incontrò per caso, mentre passava in bicicletta davanti al laboratorio. Il loro primo bacio rubato di nascosto agli occhi della gente quella prima domenica di maggio che non dimenticò mai. Rivide la figlia nelle sue mani grandi appena poco più grande di un gattino, il suo viso dolce di neonato e il bacio che le diede sulla fronte quando pronunciò per la prima volta il suo nome, Costance.
Deviarono nel bosco per il solito sentiero fino al vecchio bunker. Il freddo della canna della pistola alla nuca lo raggelò quando si fermarono. Le ginocchia gli cedettero di schianto. Poi il nulla lo inghiottì.
Il suo corpo venne ritrovato qualche mese dopo nascosto sotto un tappeto di foglie, da un ragazzino che andava per funghi. Un colpo di pistola gli traversava la nuca, come una macchia scura. L'espressione di dolore ancora stampata sul viso. Pochi passi più in là i due corpi della moglie e della figlioletta denudata, coi polsi legati dal filo spinato, orrendamente mutilato.
Nessuno seppe mai di preciso cosa accadde quella notte. Il commissario attese invano al posto convenuto di vederlo arrivare con il tedesco, con gli altri uomini della pattuglia. Quando arrivò l'alba il giorno gli pesava come un macigno, anche se quel mestiere l'aveva abituato a tutto. Tornò alla caserma e scrisse due righe su un foglio passandolo al suo attendente. "Operazione Inquisitore fallita." Gli disse che era urgente. Poi si versò da bere un goccio di whisky e si sedette. E si abbandonò al pianto.
[Fine]
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