Esercizio di scrittura creativa partendo da una foto.
(Estate di Ruth Orkin, American Girl in Italy Firenze 1951)
Quando il telefono suonò stava ancora finendo di radersi. Sollevò lo sguardo e osservò il suo volto nella luce che filtrava dalla finestra. Una luce intensa, un bagliore candido di una mattina di giugno dopo una notte di temporale. Lasciò cadere il rasoio nella bacinella bianca, smaltata e si asciugò il viso con una salvietta. Se la gettò su una spalla e tornò a guardarsi nello specchio come fosse un estraneo.
Quando lei sentì la sua voce, stava quasi per riagganciare. "Meno male... pensavo non fossi in casa". La voce tremula come ogni volta quando doveva chiamarlo.
Lui chiese come stava, levandosi dal viso i resti della schiuma da barba. Lei rispose che non aveva molto tempo, ma che sarebbe passata tra una ventina di minuti o poco più. Moriva dalla voglia di vederlo, ma non lo disse. Riagganciò la cornetta. Sistemò i capelli con una mano, nervosa e impaziente si alzò dalla scrivania.
Si erano conosciuti al mercato, davanti a una bancarella di frutta e verdura. Avevano alzato un dito nello stesso momento, sovrapponendo le parole quasi identiche per richiamare l'attenzione del venditore.
Lui sorrise e notò il suo leggero imbarazzo nello scusarsi. “Non ho alcuna fretta” disse lui lasciandole la precedenza. Lei quasi non lo guardò, ma sentiva l'invadenza della sua presenza vicino. Inquieta e imbarazzata attese di essere servita, impaziente di sottrarsi a quello sguardo.
Lui si offrì di portarle la spesa. Lei oppose una timida resistenza ma lui si ostinò nel prenderle il sacchetto.
“Non avete comprato niente... ” disse lei camminando fra la gente che animava il mercato, le urla dei venditori e il sole di quella mattina che la costringeva a portare un paio di occhiali scuri su quel viso innocente.
“Per comprare c'è sempre tempo” aveva risposto lui “lo farò dopo, il mercato non scappa, le occasioni si, quelle scappano...”
Il viso di lei si infiammò. Non era abituata a dare confidenza agli estranei specialmente in una città che conosceva poco.
Si era trasferita a Firenze col marito dopo l'incarico che aveva ricevuto all'ambasciata di Francia sei mesi prima. Parlava un italiano ancora stentato, ma imparava con facilità e questo le aveva consentito di trovare lavoro presso uno studio notarile del centro.
Lui amava quel suo modo di pronunciare le parole, quella sua inflessione straniera, quella erre arrotata dalle sue labbra morbide. Le chiese di rivederla. Lei si torturò le labbra per negare ciò che non avrebbe voluto negare. Lui insistette lasciandole annotato su un foglietto un indirizzo.
Finirono per diventare amanti, arresi dall'evidenza dei fatti. Ogni volta che lo incontrava si sentiva travolta, spogliata fino nell'anima. Mascherava il suo imbarazzo saltando da un discorso all'altro quando parlava con lui, per vincere la tentazione di lasciarsi sconfiggere dal respiro che le gonfiava il seno, per sottrarsi a quel senso di abbandono che bramava più di ogni altra cosa. Sentiva le sue mani addosso anche quando non era in sua compagnia. E quando erano insieme si possedevano con l'istinto di due animali.
Era cresciuta in un paesino sulle rive della Senna, nel nord della Francia. Negli anni della sua adolescenza, Amboise le sembrava il posto più bello al mondo, prima che scoppiasse la grande guerra, con le sue case antiche, le viuzze piene di ristoranti e il castello settecentesco che dominava la valle della Loira.
Si era innamorata la sua prima volta di un giovane di qualche anno più grande di lei. Si chiamava Jean. Era innamorata dei suoi occhi, della sua risata, del modo che aveva di farla ridere. E anche allora viveva questa passione con lo stesso impeto e lo stesso trasporto. Lui partì per il fronte promettendole che l'avrebbe sposata a guerra finita. Ma non andò così. Lui non tornò e lei si rassegnò a sposare il meno peggio.
Un buon partito, così l'aveva definito sua madre, perché poi l'amore passa, figlia mia. Non si era mai ribellata alla madre e non lo fece nemmeno in quel caso, specie dopo che rimase vedova e lei orfana di padre.
Aveva imparato ad amarlo. Un amore fatto di gratitudine, non di compassione e nemmeno animato dal senso del dovere. Un amore sincero, leale. Non avrebbe mai voluto ferirlo, in alcun modo. E non aveva mai ceduto alle lusinghe degli uomini.
Forse per questo nei suoi occhi c'era un velo di malinconia che faceva da sottofondo a uno sguardo intenso, cristallino, talvolta smarrito.
Era quel senso di smarrimento che aveva colpito David quel giorno al mercato.
Si erano incontrati nuovamente quasi per caso, qualche settimana dopo. Lei non aveva osato rintracciarlo. Sapeva a cosa andava incontro. Sapeva che sarebbe stata travolta.
David aveva appena lasciato l'università. Era in Italia da un paio d'anni con un dottorato di ricerca dell'università di Baltimora. La sua famiglia era italo-americana da due generazioni e aveva ereditato dal nonno la stessa passione per l'arte. Parlava un italiano quasi perfetto con un leggero accento fiorentino. A Firenze si sentiva a casa. Svoltò l'angolo verso piazza S. Croce e osservò le facciate dei palazzi antichi. La vide camminare verso di lui senza fretta. Indossava un abito primaverile, dai colori tenui che le fasciava il corpo aggraziato, leggero e snello.
Lei fece quasi finta di non vederlo, ma lui la fermò. Le disse che era di fretta, lo attendevano a una conferenza su un dipinto del quattrocento. Non poteva mancare ma avrebbe avuto piacere che lei lo accompagnasse. “Non so... forse non è il caso … ” rispose impacciata.
“Andiamo... è una conferenza. Non ti piace l'arte, la pittura? Firenze è la città dell'arte guardati attorno. Poi se non hai mai visto Masolino da Panicale...”
Era la prima volta che le dava del tu, gesticolando con le mani mentre parlava.
“Masolino da Panicale... “ ripeté lei senza sapere cos'altro dire. Sorrise e lui la prese sotto braccio “Non è distante... è qui dietro.”
Entrarono nella sala affollata di gente. La conferenza era iniziata da qualche minuto. Lei arrossì a quegli sguardi estranei ai quali non riuscì a sottrarsi nemmeno quando si sedettero a centro sala. Era un tumulto di sensazioni, il cuore le batteva forte, temeva di incrociare lo sguardo di qualcuno che conosceva. Cosa avrebbe raccontato, come si sarebbe giustificata.
Lui si sporse verso di lei, leggermente. Avvertì il suo profumo, la fragranza di freschezza che emanava, offrendole il programma della conferenza.
Lei abbassò lo sguardo sul foglio e lo prese. Le loro dita si sfiorarono appena. Sorrise imbarazzata e riportò lo sguardo sull'oratore e sulla diapositiva che stava alle sue spalle. Lui ogni tanto aggiungeva delle spiegazioni bisbigliandole al suo orecchio. Lei annuiva cercando di trattenere l'emozione nel sentirlo così vicino. Le dita posate sul bordo della gonna torturavano l'orlo nervosamente. La mano di lui si allungò sulla sua stringendola. Fu la sua resa. Quel gesto nascosto allo sguardo dei presenti, la colpì come un fulmine. Avrebbe voluto essere altrove, scappare, fuggire da lui, eppure non c'era altro posto al mondo dove avrebbe voluto stare.
Quel giorno cadde ogni sua difesa, presa in vortice che l'assaliva improvvisamente senza lasciarle scampo, come quella mattina in ufficio quando il capo le diede delle commissioni da sbrigare. Colse al volo l'occasione, per questo l'aveva chiamato.
Si affacciò alla porta dell'ufficio cercando di dissimulare l'agitazione.
“Allora col suo permesso, vado.” Le sembrava che ogni altro suo pensiero si palesasse nell'espressione sul viso. Temeva lo sguardo severo del notaio, la sua figura arcigna e imponente. Il capo sollevò lo sguardo dalle carte, con l'indice scostò il polsino della camicia dall'orologio, osservando l'ora da sopra le lenti degli occhiali sottili.
“Mi faccia una cortesia signorina, mi compri dei fiori per mia moglie.” Le dava della signorina anche sapendo che era sposata. “Delle rose rosse.. una dozzina.. è il nostro anniversario.” Aprì un cassetto e posò una banconota sulla scrivania. Lei si avvicinò e la prese nascondendo il disappunto.
“Va bene... credo allora che tornerò nel pomeriggio, se devo cercarle anche dei fiori”. Lasciò l'ufficio sotto lo sguardo del notaio che la guardò senza rispondere.
Tornò alla scrivania pensando alle rose. Fin da piccola non aveva mai amato particolarmente le rose. Sua madre amava adornare spesso la casa con fiori freschi che il padre, commerciante di fiori, le portava una volta la settimana. Le calle, in particolare, erano i fiori preferiti da sua madre e il loro profumo intenso le sfiorò la mente inondandola di ricordi. Lei invece adorava i gigli, specie quelli maculati coi pistilli pronti a sporcarle il nasino quando da bambina si avvicinava per annusarli. I gigli della Regina, li chiamava suo padre prendendola sulle ginocchia pulendole la punta del naso con le dita.
Prese con sé lo scialle e la borsetta guardando nervosamente l'ora. Allungò una mano verso la cartelletta dei documenti e la mise sottobraccio.
Chiuse la porta vetri dell'ufficio e scese le scale del palazzo, accompagnata dal rumore sordo dei passi sui gradini di marmo.
Quella mattina aveva piovuto, ma ora il cielo si era aperto e le strade erano quasi completamente asciutte.
Uscì dal portone e salutò il custode che fumava appoggiato alla porta della guardiola. Lo scialle che le cadeva da una spalla per la fretta.
La cartelletta sotto il braccio era un peso di cui avrebbe fatto volentieri a meno. La borsetta nella mano che dondolava a ogni suo passo.
“Ci vediamo nel pomeriggio... “ aveva risposto svoltando per la strada.
Percorse un paio di isolati. Quella mattina sembrava che nessuno stesse lavorando. Sentiva gli occhi della gente addosso, senza un motivo.
In fondo non era appariscente. Il vestito che indossava era semplice, in ufficio non amava portare abiti troppo vistosi. Non voleva offrire pretesti al suo capo per metterla in imbarazzo con qualche complimento scontato.
All'angolo della strada un gruppetto di persone sembrava fosse messo lì apposta per scoprire dove fosse diretta. Si rese conto di essere l'unica donna in quel momento in mezzo a tutti quegli uomini. Sentiva i loro sguardi che la seguivano, passo dopo passo, i loro commenti sfacciati, qualcuno lanciò un fischio al suo passaggio.
Tornò a sistemarsi lo scialle coprendosi il seno con un senso di pudore che le avvampò il viso. Le guance arrossate, lo sguardo che evitava accuratamente i loro volti. Sorrise amabilmente a un signore anziano con la giacca posata sulle spalle che fumava una sigaretta, evitando di rispondere a un complimento invadente di un giovane nascosto alla vista dall'angolo, che si protese verso di lei appoggiato all'ombrello, imitato da un amico seduto al tavolino del bar. Due ragazzi su una lambretta risero sfacciatamente della battuta aumentando ancora di più il suo imbarazzo.
Il signore anziano le rivolse un cenno galante. Lei lo ricambiò con un sorriso. “Se avessi vent'anni di meno... – mormorò e non disse altro. Lei non sentì o finse elegantemente di non sentire passandogli accanto.
Quando arrivò, lui l'attendeva appoggiato di spalla allo stipite della porta. Era riuscita a evitare le domande indiscrete della portinaia, troppo curiosa di sapere da chi stesse andando, e altrettanto sicura che si stesse recando dall'affascinante inquilino del terzo piano. Cercava solo una conferma con quel gusto sadico delle portinaie di ficcare il naso dappertutto.
Salì le scale quasi di corsa. Lui la vide fermarsi all'inizio dell'ultima rampa. Le sorrise sottraendosi al suo sguardo. Lei entrò chiudendosi la porta alle spalle. Il respiro le gonfiava il seno da sotto il vestito. Ansimando si appoggiò alla porta e lo cercò con lo sguardo. Lui sbucò dal bagno con in mano una camicia. Se la mise in spalla guardandola ansimare. Il seno di lei che si gonfiava e abbassava, i capezzoli che premevano contro la stoffa del vestito. Sorrise, adagiando il viso al suo petto nudo. “David – sussurrò piano – morivo...”
Lui le troncò le parole sulle labbra. Sentì le sue mani sul collo, sfiorarle la pelle arrossata del viso. Due artigli che le dilaniavano il respiro, squarciando il tempo e dilatando lo spazio. La cartelletta e la borsa caddero nel vuoto.
Il loro tonfo suonò come un tuono lontano che serpeggia in una valle alpina portandosi dietro i bagliori dei lampi. Lei restò immobile con le mani dietro sua la schiena, appoggiata di spalle alla porta. Le labbra socchiuse. La prese lì contro la porta, in piedi, spogliandola con la stessa foga di un rapace che tiene la sua preda sotto gli artigli. Arresa, abbandonata, vinta ma viva. Lo sentiva sotto la pelle, scorrergli nelle vene. Il respiro assente. Immobile. Un lampo di luce squarciò il cielo viola dei suoi occhi socchiusi, quando lo sentì entrare in lei. Vibrò ansimante abbandonandosi come una foglia al destino del vento.
Finirono per ritrovarsi distesi sul letto. Il corpo di lei adagiato sul ventre, il viso addormentato sulle braccia incrociate. La mano di lui ancora le accarezzava la curva delle spalle seguendo il suo respiro lento, appagato.
“Mi sono dimenticata delle rose...” mormorò lei senza aprire gli occhi. “Le rose... per il capo...”. Lui sorrise chinando le labbra percorrendo la sua schiena. “Puoi sempre dire che erano finite – rispose stemperando un sorriso – così hai un'altra buona scusa per uscire di nuovo, Florance ...”.
Uscì dal portone e salutò il custode che fumava appoggiato alla porta della guardiola. Lo scialle che le cadeva da una spalla per la fretta.
La cartelletta sotto il braccio era un peso di cui avrebbe fatto volentieri a meno. La borsetta nella mano che dondolava a ogni suo passo.
“Ci vediamo nel pomeriggio... “ aveva risposto svoltando per la strada.
Percorse un paio di isolati. Quella mattina sembrava che nessuno stesse lavorando. Sentiva gli occhi della gente addosso, senza un motivo.
In fondo non era appariscente. Il vestito che indossava era semplice, in ufficio non amava portare abiti troppo vistosi. Non voleva offrire pretesti al suo capo per metterla in imbarazzo con qualche complimento scontato.
All'angolo della strada un gruppetto di persone sembrava fosse messo lì apposta per scoprire dove fosse diretta. Si rese conto di essere l'unica donna in quel momento in mezzo a tutti quegli uomini. Sentiva i loro sguardi che la seguivano, passo dopo passo, i loro commenti sfacciati, qualcuno lanciò un fischio al suo passaggio.
Tornò a sistemarsi lo scialle coprendosi il seno con un senso di pudore che le avvampò il viso. Le guance arrossate, lo sguardo che evitava accuratamente i loro volti. Sorrise amabilmente a un signore anziano con la giacca posata sulle spalle che fumava una sigaretta, evitando di rispondere a un complimento invadente di un giovane nascosto alla vista dall'angolo, che si protese verso di lei appoggiato all'ombrello, imitato da un amico seduto al tavolino del bar. Due ragazzi su una lambretta risero sfacciatamente della battuta aumentando ancora di più il suo imbarazzo.
Il signore anziano le rivolse un cenno galante. Lei lo ricambiò con un sorriso. “Se avessi vent'anni di meno... – mormorò e non disse altro. Lei non sentì o finse elegantemente di non sentire passandogli accanto.
Quando arrivò, lui l'attendeva appoggiato di spalla allo stipite della porta. Era riuscita a evitare le domande indiscrete della portinaia, troppo curiosa di sapere da chi stesse andando, e altrettanto sicura che si stesse recando dall'affascinante inquilino del terzo piano. Cercava solo una conferma con quel gusto sadico delle portinaie di ficcare il naso dappertutto.
Salì le scale quasi di corsa. Lui la vide fermarsi all'inizio dell'ultima rampa. Le sorrise sottraendosi al suo sguardo. Lei entrò chiudendosi la porta alle spalle. Il respiro le gonfiava il seno da sotto il vestito. Ansimando si appoggiò alla porta e lo cercò con lo sguardo. Lui sbucò dal bagno con in mano una camicia. Se la mise in spalla guardandola ansimare. Il seno di lei che si gonfiava e abbassava, i capezzoli che premevano contro la stoffa del vestito. Sorrise, adagiando il viso al suo petto nudo. “David – sussurrò piano – morivo...”
Lui le troncò le parole sulle labbra. Sentì le sue mani sul collo, sfiorarle la pelle arrossata del viso. Due artigli che le dilaniavano il respiro, squarciando il tempo e dilatando lo spazio. La cartelletta e la borsa caddero nel vuoto.
Il loro tonfo suonò come un tuono lontano che serpeggia in una valle alpina portandosi dietro i bagliori dei lampi. Lei restò immobile con le mani dietro sua la schiena, appoggiata di spalle alla porta. Le labbra socchiuse. La prese lì contro la porta, in piedi, spogliandola con la stessa foga di un rapace che tiene la sua preda sotto gli artigli. Arresa, abbandonata, vinta ma viva. Lo sentiva sotto la pelle, scorrergli nelle vene. Il respiro assente. Immobile. Un lampo di luce squarciò il cielo viola dei suoi occhi socchiusi, quando lo sentì entrare in lei. Vibrò ansimante abbandonandosi come una foglia al destino del vento.
Finirono per ritrovarsi distesi sul letto. Il corpo di lei adagiato sul ventre, il viso addormentato sulle braccia incrociate. La mano di lui ancora le accarezzava la curva delle spalle seguendo il suo respiro lento, appagato.
“Mi sono dimenticata delle rose...” mormorò lei senza aprire gli occhi. “Le rose... per il capo...”. Lui sorrise chinando le labbra percorrendo la sua schiena. “Puoi sempre dire che erano finite – rispose stemperando un sorriso – così hai un'altra buona scusa per uscire di nuovo, Florance ...”.
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