Rientrò in casa che erano passate da poco le cinque del pomeriggio. La notizia della morte del suo socio gli scavava lo stomaco con la stessa velocità di un uragano. Salutò la moglie con un bacio sulla fronte e posò la borsa di cuoio sulla sedia dell'ingresso vicino alla pendola. Il suo ticchettio scandiva il tempo nel silenzio di quel corridoio angusto e grigio. Per un attimo si fermò a guardare il suo volto scarno, riflesso nel vetro dell'orologio prima di ricaricarlo, ripetendo quel gesto con la lentezza esasperante di un rituale scaramantico. Appese l'impermeabile nel disimpegno e si sentì stanco, improvvisamente stanco di un giorno apparentemente senza fine.
"Come mai sei arrivato così presto oggi, non dovevi incontrarti con quel tale dopo il lavoro?". La domanda della moglie lo colse impreparato.
"Si, ma non è venuto. Non so come mai. Ho aspettato per un po' ma..."
Non dette altre spiegazioni e del resto sua moglie non ne chiese. I dialoghi fra loro ormai erano delle semplici comunicazioni di servizio fra due mondi sempre più distanti.
Nel salottino si lasciò sprofondare nella poltrona vicino alla figlia che ciondolava il capo sulla carrozzina. Raccolse da terra un rotocalco e lo ripose sul tavolino. Con il bavaglio asciugò un filo di bava che le scendeva dalla bocca. Il capo che dondolava aritmicamente a destra e sinistra, contenta di vederlo. Quel sorriso stentato ma sincero sostenuto da quei due occhietti lucidi della bimba gli consegnarono l'unico vero attimo di serenità in quel giorno così confuso, fermando il tempo e con esso i pensieri.
"Prima che mi dimentichi, hanno telefonato per te. Ma non so chi fosse. Hanno chiuso subito ."
La notizia lo riportò immediatamente alla realtà di quel giorno. Si domandò ancora una volta chi avesse potuto uccidere il suo socio e per quale motivo. Poteva essere collegato in qualche modo all'identità del personaggio a cui dovevano far passare il confine? Schiffman era stato chiaro. Meno domande ti fai e più possibilità avrai di portare a casa la pelle. Era dunque questo il motivo? Si era fatto troppe domande? Era per questo che era morto? Chi si nascondeva dietro l'identità del fuggiasco?
Per quanto ci pensasse nessuna delle supposizioni che gli balenavano alla mente lo convinceva. Era arrivato il momento di aprire la busta che Schiffman gli aveva passato. "Questa nascondila bene da qualche parte - gli aveva detto consegnandola - dovesse andare storto qualcosa, qui dentro c'è la tua salvezza e forse anche la mia."
Ricordava quel momento non senza una certa dose di agitazione. Lui, che i compagni di lavoro soprannominato il pendolo, per via del suo atteggiamento distaccato nei confronti della vita, sempre uguale, sempre costante, senza che lasciasse trasparire un'emozione. Eppure quel giorno davanti a Schiffman aveva provato paura. Una paura vera, tanto vera da toccarla con mano. Tanto vera da disegnare rivoli di sudore anche sul viso tirato del suo socio.
Attese che la moglie si coricasse e prese la busta nascosta dietro la pendola. Sedette al tavolo in cucina l'aprì nel silenzio assordante che lo circondava. Tirò fuori il contenuto disponendo davanti a sé un passaporto, una mazzetta di dollari, un biglietto ferroviario per Parigi e un bigliettino di un ristorante di rue de Boìs.
Riconobbe la calligrafia di Schiffman su un foglietto. "Se stai leggendo questo foglio vuol dire che il tuo socio è nei guai e spero per entrambi che non sia troppo tardi. Chiama il numero che ti ho segnato appena puoi e ti diranno cosa fare. Non pensare di rivolgerti alla polizia, e non pensare di scappare. Per loro sai già troppe cose."
Oltre alla firma e al numero di telefono non c'erano altre indicazioni.
Prese il passaporto di nazionalità elvetica e lo sfogliò con il pollice e l'indice fino alla foto, poi se lo rigirò sottosopra. Rimase a fissare quel viso paffuto e senza sorriso. Il cranio rasato e lucente. Portava gli occhiali dalla montatura spessa e quadra che conferivano al viso un'aria da dottore.
"Aron Winkler" disse ripetendo il nome riportato sul documento. "Sposato, di professione chirurgo. Via Querciola, 5. Locarno".
Serrò le labbra poco convinto. Il nome gli apparve subito una forzatura un pò ingenua per un passaporto falso.
"Se questo è un ebreo, io sono il presidente della confederazione" disse ripetendo involontariamente quelle parole che giungevano direttamente dal suo passato. Il volto del padre e la sua voce gli vennero in soccorso inondandogli la mente di ricordi, quando ancora bambino si faceva scudo della madre per scampare alle punizioni che rimediava.
"Se quello lì è un santo, io sono il presidente della confederazione". Finiva sempre così quando la madre tentava di difenderlo per qualche sua marachella. E sapeva anche che il ceffone, meritato e che il padre gli aveva promesso, sarebbe arrivato con la puntualità di un telegramma quando meno se lo aspettava.
Alla luce della candela osservò la filigrana del documento e lo richiuse posandolo sul tavolo. Prese la mazzetta di dollari e li contò. Erano ottocento dollari. Una cifra di tutto rispetto per quei tempi. Girò e rigirò il bigliettino del ristorante mentre cercava di riordinare le idee.
Perché Schiffman gli aveva mentito parlando di un ufficiale dell'armata rossa che voleva andare in America, definendolo un lavoretto facile facile.
"Prendi in consegna il tipo, gli fai passare il confine, lo metti sul treno. Incassi e fine."
Se ne andò a dormire ma quella notte il sonno lo raggiunse solo alle prime luci dell'alba. Continuamente pensava a quelle poche tessere di quel mosaico confuso che non riusciva a ricostruire. Quello che gli sembrava certo ora, era che tutta questa faccenda poteva costargli molto cara. E se gli fosse successo qualcosa, che ne sarebbe stato della sua famiglia?
Al mattino osservò il suo viso tirato allo specchio mentre si radeva. Gli occhi arrossati da quella notte tormentata. Si vestì e mise al polso il suo orologio d'oro come se fosse un giorno di festa. Contrariamente alle circostanze si sentiva calmo. Sapeva che il destino gli stava andando incontro. Sapeva che non poteva sottrarsi alla ineluttabilità delle cose. Salutò la moglie con un gesto affettuoso che lo riportò ai loro primi tempi, quando la vita gli sorrideva piena di sorprese e speranze. Poi si chinò a baciare la figlia sulla fronte. "Papà torna presto, piccola". Le carezzò il viso e uscì senza voltarsi, con la sua solita borsa sotto il braccio.
Il tempo era grigio. Non pioveva e già questo era un sollievo pensò. Nuvole bianche attraversavano veloci il fianco della montagna e il freddo era tagliente. Percorse il tragitto che lo conduceva al laboratorio e si infilò nel bar all'angolo. Prese un caffè e si fece passare la linea nella cabina.
I tre squilli del telefono gli rimbombarono in testa segnando il tempo con una lentezza esasperante. Al quarto stava per riagganciare quando gli rispose una voce di donna dall'accento tedesco molto marcato.
"Pronto chi parla?" Il tono della donna era freddo e distaccato.
"Schiffman mi ha detto di chiamare. Che avrei ricevuto istruzioni." rispose in modo sbrigativo rendendosi conto troppo tardi di non aver pensato a cosa dire. Si era trovato davanti al telefono e aveva composto il numero ed era del tutto impreparato a una conversazione di quel tipo.
La donna rispose di attendere e posò il ricevitore. Passarono alcuni minuti prima che si rifacesse viva.
"Ha con sé i documenti?" domandò dando per scontato che sapesse di cosa stesse parlando.
Si li aveva. Li aveva messi già dalla sera prima nella sua borsa.
"Bene. Prenda il primo treno per l'Italia e richiami quando sarà oltre confine. Scenda alla prima fermata. E non faccia sciocchezze."
Rispose che di lui si potevano fidare, che non c'era bisogno di minacciare niente e nessuno, ma la donna replicò domandandogli se avesse notizie del suo amico. "Come sta Schiffman? Ho saputo che ultimamente non è stato molto bene. Veda di non ammalarsi anche lei."
Il suono sordo e continuo del telefono gli annunciò che la comunicazione era stata interrotta. Posò il ricevitore e uscì dalla cabina. In piedi vicino al bancone del bar il commissario di confine lo stava aspettando.
"Come mai sei arrivato così presto oggi, non dovevi incontrarti con quel tale dopo il lavoro?". La domanda della moglie lo colse impreparato.
"Si, ma non è venuto. Non so come mai. Ho aspettato per un po' ma..."
Non dette altre spiegazioni e del resto sua moglie non ne chiese. I dialoghi fra loro ormai erano delle semplici comunicazioni di servizio fra due mondi sempre più distanti.
Nel salottino si lasciò sprofondare nella poltrona vicino alla figlia che ciondolava il capo sulla carrozzina. Raccolse da terra un rotocalco e lo ripose sul tavolino. Con il bavaglio asciugò un filo di bava che le scendeva dalla bocca. Il capo che dondolava aritmicamente a destra e sinistra, contenta di vederlo. Quel sorriso stentato ma sincero sostenuto da quei due occhietti lucidi della bimba gli consegnarono l'unico vero attimo di serenità in quel giorno così confuso, fermando il tempo e con esso i pensieri.
"Prima che mi dimentichi, hanno telefonato per te. Ma non so chi fosse. Hanno chiuso subito ."
La notizia lo riportò immediatamente alla realtà di quel giorno. Si domandò ancora una volta chi avesse potuto uccidere il suo socio e per quale motivo. Poteva essere collegato in qualche modo all'identità del personaggio a cui dovevano far passare il confine? Schiffman era stato chiaro. Meno domande ti fai e più possibilità avrai di portare a casa la pelle. Era dunque questo il motivo? Si era fatto troppe domande? Era per questo che era morto? Chi si nascondeva dietro l'identità del fuggiasco?
Per quanto ci pensasse nessuna delle supposizioni che gli balenavano alla mente lo convinceva. Era arrivato il momento di aprire la busta che Schiffman gli aveva passato. "Questa nascondila bene da qualche parte - gli aveva detto consegnandola - dovesse andare storto qualcosa, qui dentro c'è la tua salvezza e forse anche la mia."
Ricordava quel momento non senza una certa dose di agitazione. Lui, che i compagni di lavoro soprannominato il pendolo, per via del suo atteggiamento distaccato nei confronti della vita, sempre uguale, sempre costante, senza che lasciasse trasparire un'emozione. Eppure quel giorno davanti a Schiffman aveva provato paura. Una paura vera, tanto vera da toccarla con mano. Tanto vera da disegnare rivoli di sudore anche sul viso tirato del suo socio.
Attese che la moglie si coricasse e prese la busta nascosta dietro la pendola. Sedette al tavolo in cucina l'aprì nel silenzio assordante che lo circondava. Tirò fuori il contenuto disponendo davanti a sé un passaporto, una mazzetta di dollari, un biglietto ferroviario per Parigi e un bigliettino di un ristorante di rue de Boìs.
Riconobbe la calligrafia di Schiffman su un foglietto. "Se stai leggendo questo foglio vuol dire che il tuo socio è nei guai e spero per entrambi che non sia troppo tardi. Chiama il numero che ti ho segnato appena puoi e ti diranno cosa fare. Non pensare di rivolgerti alla polizia, e non pensare di scappare. Per loro sai già troppe cose."
Oltre alla firma e al numero di telefono non c'erano altre indicazioni.
Prese il passaporto di nazionalità elvetica e lo sfogliò con il pollice e l'indice fino alla foto, poi se lo rigirò sottosopra. Rimase a fissare quel viso paffuto e senza sorriso. Il cranio rasato e lucente. Portava gli occhiali dalla montatura spessa e quadra che conferivano al viso un'aria da dottore.
"Aron Winkler" disse ripetendo il nome riportato sul documento. "Sposato, di professione chirurgo. Via Querciola, 5. Locarno".
Serrò le labbra poco convinto. Il nome gli apparve subito una forzatura un pò ingenua per un passaporto falso.
"Se questo è un ebreo, io sono il presidente della confederazione" disse ripetendo involontariamente quelle parole che giungevano direttamente dal suo passato. Il volto del padre e la sua voce gli vennero in soccorso inondandogli la mente di ricordi, quando ancora bambino si faceva scudo della madre per scampare alle punizioni che rimediava.
"Se quello lì è un santo, io sono il presidente della confederazione". Finiva sempre così quando la madre tentava di difenderlo per qualche sua marachella. E sapeva anche che il ceffone, meritato e che il padre gli aveva promesso, sarebbe arrivato con la puntualità di un telegramma quando meno se lo aspettava.
Alla luce della candela osservò la filigrana del documento e lo richiuse posandolo sul tavolo. Prese la mazzetta di dollari e li contò. Erano ottocento dollari. Una cifra di tutto rispetto per quei tempi. Girò e rigirò il bigliettino del ristorante mentre cercava di riordinare le idee.
Perché Schiffman gli aveva mentito parlando di un ufficiale dell'armata rossa che voleva andare in America, definendolo un lavoretto facile facile.
"Prendi in consegna il tipo, gli fai passare il confine, lo metti sul treno. Incassi e fine."
Se ne andò a dormire ma quella notte il sonno lo raggiunse solo alle prime luci dell'alba. Continuamente pensava a quelle poche tessere di quel mosaico confuso che non riusciva a ricostruire. Quello che gli sembrava certo ora, era che tutta questa faccenda poteva costargli molto cara. E se gli fosse successo qualcosa, che ne sarebbe stato della sua famiglia?
Al mattino osservò il suo viso tirato allo specchio mentre si radeva. Gli occhi arrossati da quella notte tormentata. Si vestì e mise al polso il suo orologio d'oro come se fosse un giorno di festa. Contrariamente alle circostanze si sentiva calmo. Sapeva che il destino gli stava andando incontro. Sapeva che non poteva sottrarsi alla ineluttabilità delle cose. Salutò la moglie con un gesto affettuoso che lo riportò ai loro primi tempi, quando la vita gli sorrideva piena di sorprese e speranze. Poi si chinò a baciare la figlia sulla fronte. "Papà torna presto, piccola". Le carezzò il viso e uscì senza voltarsi, con la sua solita borsa sotto il braccio.
Il tempo era grigio. Non pioveva e già questo era un sollievo pensò. Nuvole bianche attraversavano veloci il fianco della montagna e il freddo era tagliente. Percorse il tragitto che lo conduceva al laboratorio e si infilò nel bar all'angolo. Prese un caffè e si fece passare la linea nella cabina.
I tre squilli del telefono gli rimbombarono in testa segnando il tempo con una lentezza esasperante. Al quarto stava per riagganciare quando gli rispose una voce di donna dall'accento tedesco molto marcato.
"Pronto chi parla?" Il tono della donna era freddo e distaccato.
"Schiffman mi ha detto di chiamare. Che avrei ricevuto istruzioni." rispose in modo sbrigativo rendendosi conto troppo tardi di non aver pensato a cosa dire. Si era trovato davanti al telefono e aveva composto il numero ed era del tutto impreparato a una conversazione di quel tipo.
La donna rispose di attendere e posò il ricevitore. Passarono alcuni minuti prima che si rifacesse viva.
"Ha con sé i documenti?" domandò dando per scontato che sapesse di cosa stesse parlando.
Si li aveva. Li aveva messi già dalla sera prima nella sua borsa.
"Bene. Prenda il primo treno per l'Italia e richiami quando sarà oltre confine. Scenda alla prima fermata. E non faccia sciocchezze."
Rispose che di lui si potevano fidare, che non c'era bisogno di minacciare niente e nessuno, ma la donna replicò domandandogli se avesse notizie del suo amico. "Come sta Schiffman? Ho saputo che ultimamente non è stato molto bene. Veda di non ammalarsi anche lei."
Il suono sordo e continuo del telefono gli annunciò che la comunicazione era stata interrotta. Posò il ricevitore e uscì dalla cabina. In piedi vicino al bancone del bar il commissario di confine lo stava aspettando.
[continua]
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