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lunedì 25 giugno 2012

Nameless

Senza fissa dimora


Era inverno e faceva molto freddo quella mattina. L'aria era gelida e pungente, ma il cielo era sereno. Parigi era ancora addormentata e camminavo lungo la banchina della Senna. Una leggera nebbiolina saliva dalle acque che scorrevano lente non ancora battute dai primi battelli.
Al mattino presto la città ha sempre un fascino particolare. I turisti dormono ancora nelle loro belle camere d'albergo e Parigi sembra una donna affascinante che si sta facendo bella davanti allo specchio.
Lungo la banchina un cane mi veniva incontro con la testa ciondoloni annusando una pista che solo lui sentiva. Mi passò oltre come se non esistessi. Era diventato un rituale quello di camminare lungo la Senna al mattino presto nelle mie domeniche di noia. Mi aiuta a non pensare, e talvolta a riordinare le idee che confusamente si affacciano di giorno.
In prossimità di un ponte sotto un mucchio di cartoni ammassati a mo' di casetta un uomo si stava svegliando. Mi domandai come facesse a resistere al freddo.
Ho sempre avuto un occhio di riguardo per i senza fissa dimora o per gli alcolizzati. Mi ricordavano mio padre. Era caduto nel vizio dell'alcool dopo la perdita del lavoro. Il prestigio che si era costruito in una vita di sacrifici era sfumato nel giro di pochi mesi e per lui l'alcool sembrava la via meno dolorosa da seguire per vincere l'umiliazione.
Mi avvicinai all'uomo che mi guardò assonnato. Tossì e si stropicciò gli occhi chiedendomi se avessi una sigaretta. Indossava due cappotti uno sopra l'altro, un paio di guanti di lana consunti come le scarpe logore e con le stringhe slacciate. I capelli castani arruffati e sporchi. La barba incolta, sudicia, le guance arrossate dal freddo e dall'alcool.
Aveva un'espressione malinconica negli occhi azzurri con cui mi guardava.
Allungò una mano e si prese una sigaretta dal pacchetto.
"Grazie, questa bionda me la fumo dopo, col suo permesso."
Sistemò la sigaretta nel taschino del primo logoro cappotto di lana grigia sfregandosi le mani. Aveva modi gentili malgrado l'aspetto trasandato e parlava con una leggera inflessione del sud. Non doveva essere nato a Parigi.
Gli chiesi da dove veniva e la sua risposta fu disarmante, mostrando una sagacia fuori dal comune. Aprì il braccio alla sua destra puntando l'indice in quella direzione.
"Vengo da là e andrò di qua - rispose spostando il braccio a indicare la direzione opposta - e poi forse chissà."
Mi sentii un perfetto idiota e convenni che me l'ero meritata. Tentai di cavarmela complimentandomi per la battuta.
Scosse il capo e si tirò in piedi scrollando il fondo della bottiglia di birra che aveva in mano.
"Non è affatto una battuta." Se la portò alla bocca e bevve quell'ultimo sorso rimasto lasciandola cadere in un sacchetto di plastica nero pieno dei cadaveri di altre bottiglie.
"Tutti veniamo da qualche parte. Vicino o lontano non ha più importanza quando vivi sotto un ponte. Quello che conta è l'ultima strada da dove vieni.
Il resto te lo sei già dimenticato da un pezzo. E dove vado io mi porto dietro le mie schifezze. Dove vado io, non sporco. Faccio come gli scarafaggi che vi fanno tanto schifo. Loro sono puliti, vivono nell'immondizia, ma sono puliti. E io le mie bottiglie, le raccolgo tutte e quando ho riempito il sacco poi ci faccio qualche moneta.
Per questo bevo, per svuotare le bottiglie e fare soldi coi vuoti. Ma ancora non ho capito perché non sono diventato ricco, con tutto quello che mi sono scolato."
Si chinò a sistemare con cura i suoi cartoni - la sua casa, disse - e prese il suo sacco nero trascinandolo verso un carrellino del supermercato dove teneva le sue poche cose.
Risposi che aveva perfettamente ragione e gli feci i complimenti per il ragionamento scusandomi per la mia invadenza.
Agitò le braccia nell'aria gesticolando verso di me, come se l'avesse offeso, parlandomi tuttavia con estrema calma.
"Se sei in vena di compatirmi tieni pure la tua sigaretta e vattene."
Non volevo scatenare la sua reazione e tentai di scusarmi nuovamente.
Raggiunse il suo carrello e gettò il sacco delle bottiglie sopra tutte le altre cose accatastate, spingendolo contro il muro. Tornò a sedersi poggiando le spalle al muro, sopra i cartoni e mi guardò.
"Tu invece, cosa fai in giro a quest'ora. Tua moglie ti sbattuto fuori di casa?"
"Quello è già successo un po' di tempo fa - risposi - e non è stata lei a sbattermi fuori. Me ne sono andato io."
Fece di si col capo fissando il vuoto davanti ai suoi occhi in direzione della Senna.
"E perché te ne sei andato? Hai figli?"
Sembrava che si divertisse a girare il coltello nelle piaghe del mio passato. Mi guardò in faccia mentre mi accendevo una sigaretta. Il fumo si elevò in un vortice verso la volta del ponte.
Risposi che erano tanti i motivi di quella scelta e che no, non avevo figli. Che li avremmo anche voluti ma che non erano mai arrivati chissà per quale motivo. Che il desiderio di mia moglie finì per diventare causa di attriti e incomprensioni che svuotarono il nostro rapporto di ogni significato. E che comunque quella non era l'unica ragione e che sarebbe finita così ugualmente con o senza figli.
La sirena di un primo battello si sovrappose alle sue parole.
"Tanti motivi, nessun motivo. C'è sempre un motivo che ti fa prendere una decisione. Quando cammini su una strada anche se ti sembra che stai andando senza meta, in realtà decidi di continuo. Destra, sinistra, dritto.
E c'è sempre qualcosa, o qualcuno che ti porta lì. Ma è più facile dire il contrario."
Risposi che non tutti avevano occhi per vedere come lui, che quello che diceva era vero, ma che ci voleva coraggio a guardarsi dentro, un coraggio che forse mi mancava.
"Usate tutti il coraggio come scusa - rispose - ma non è una questione di coraggio. Guarda me, vivo sotto i ponti da quasi dieci anni, ma ti posso garantire che se fosse solo una questione di coraggio sarei già scappato da qualche altra parte. Ti sei mai chiesto perché un barbone non si scelga un posto un po' meno freddo dove passare l'inverno?"
Non era la prima volta che parlavo con un senza fissa dimora, ma da come parlava, da come ordinava i pensieri e li esponeva con insolita lucidità capivo che mi trovavo davanti a una persona profonda, finita sulla strada per chissà quale motivo. Non osai chiederlo. E la curiosità mi metteva in imbarazzo di fronte a lui.
Mi accorsi che mi stava squadrando con quei suoi occhi azzurri e mi fissava.
"Che c'è, hai finito gli argomenti?"
"No, o forse si. Ma mi domandavo come mai una persona come lei sia finita a vivere in questo modo."
Abbassò un cartone e mi fece segno di sedermi.
"Non ho voglia di raccontartelo. Non ne capisco il motivo. Tu e tutti i borghesi come te, venite qui, ci fate la carità di una sigaretta e sperate di mettervi l'anima in pace facendo finta di interessarvi a noi che viviamo in questo modo. Il tuo mondo è il tuo mondo. E' il mio mondo è questo. Altre regole, altro modo di vivere. Altro modo di pensare."
Si accese la sigaretta che gli avevo dato con fiammifero in legno. L'accese al primo colpo e rise.
" Vedi? Qui non si spreca nemmeno un fiammifero. Tutto ha valore. Anche le cose che voi buttate. Non hai idea di quando roba si trovi a rovistare nei rifiuti."
Non so perché stessi li seduto con lui ad ascoltare. Mi parlava senza mai perdere il filo del discorso, quasi senza lasciarmi modo di rispondere.
"Voi pensate solo a quello che possedete, alle case, alle macchine, ai soldi che avete in banca. Anche le donne per voi sono diventate una questione di possesso. È un mondo che ha rinunciato all'amore, fa solo finta di essere quello che non è più da tempo."
Aspirava il fumo della sigaretta con estrema cautela proteggendola dal vento con la mano, quasi volesse impedirle di consumarsi.
"Gli uomini hanno bisogno di avere, perché non sono più capaci di essere. Questo è il punto."
Il cane che avevo incontrato in precedenza era di ritorno. E lui fischiò. Si fermò con le orecchie ritte voltando il capo verso di noi, come se conoscesse quel richiamo. L'uomo prese un bastoncino e lo lanciò oltre il parapetto della Senna. Il cane si precipitò a cercarlo invano poi se ne andò.
"Tra bastardi, come vedi, ci si intende e ci si rispetta sempre, e qualche volta si gioca." Spense la sigaretta che si era consumata ormai fino al filtro e tossì forte.
Feci per alzarmi e mi fermò posandomi una mano sopra il ginocchio.
"Te ne vai di già amico? Sei stanco di sentire le mie prediche?"
Gli risposi che avevo un appuntamento ma che potevo restare ancora un po' se gli faceva piacere.
Anche lui non parve dispiaciuto all'idea che restassi. Forse non era così vera quell'aria di distacco che aveva nei confronti del mondo, forse dopotutto anche una semplice conversazione come quella doveva pur sempre rappresentare per lui un diversivo, rispetto alla solitudine delle sue giornate.
"In passato ero come te, come tutti voi, anch'io con la mia bella vita. Un posto di lavoro ben pagato, gli amici, le cene, i ristoranti. Non vivevo nel lusso, ma non facevo nemmeno la fame. Avevo una donna bellissima, bionda con la risata cristallina. Occhi verdi che sembrava ti parlassero. Era così bella che tutti si voltavano a guardarci quando si passeggiava a braccetto per Montmartre. L'amavo, ci amavamo alla follia."
Ascoltavo in silenzio le sue parole come segno di doveroso rispetto verso quel gesto che stava compiendo. Avevo la sensazione che il raccontarmi la sua storia gli servisse a rendere meno pesante il fardello che stava portando. O forse semplicemente era il suo modo di ringraziarmi per avergli dedicato del tempo.
"Volevamo un figlio. A tutti i costi. Era l'unica cosa che ci mancava. Era aprile e l'aria era fresca e frizzante quando tornò dal lavoro e mi disse che era in cinta. Che gioia quel giorno. Eravamo pazzi di gioia."
Il tono della voce era cambiato ma il suo sguardo fissava la Senna in un punto indefinito.
"Sembrava che tutto andasse bene, amico mio. Ma non andò così. A un mese dal parto accusò dei dolori lancinanti una notte. Disperati corremmo di corsa all'ospedale ma ci fu poco da fare. Il bambino nacque prematuro e morto.
Lei non si dette pace da quel giorno. Era come se nei suoi occhi si fosse spenta la luce della vita prima ancora di morire. Si gettò da questo ponte una sera di dicembre. Si lanciò da lì. Dovettero dragare tutto il corso del fiume fino alle porte città, per ritrovarla. Ed è questa la ragione per la quale io vivo qui. Avessi il suo stesso coraggio l'avrei già seguita."
Gli offrii un'altra sigaretta, lui prese una bottiglia di vino da pochi soldi e mi offrì di bere. Lo scambio mi sembrò equo e rifiutare sarebbe stata un'offesa che non si meritava.
"Sono passati dieci anni, e tutte le mattine quando mi sveglio penso di aver scontato abbastanza la mia pena prima di farla finita come lei. Prima di raggiungerla. Ma quando sono sul punto dal quale lei si è gettata lasciando il suo impermeabile a terra, mi convinco sempre che un giorno in più di tormento posso ancora sopportarlo. Un giorno dopo l'altro e gli anni passano, ma non la sofferenza. Non il dolore per non essere riuscito ad aiutarla."
Si riprese la bottiglia e ne bevve ancora un sorso, poi se la infilò nella tasca semi strappata del cappotto e si alzò.
Se ne andò via senza dire alcuna parola, senza voltarsi mai a guardarmi lasciandomi solo con la sua stessa pena nel cuore spingendo lentamente il suo carrello.
Un paio di giorni più tardi i giornali riportarono la notizia del ritrovamento del cadavere di un senza fissa dimora caduto nella Senna. Non potei non pensare a lui. Era stato visto salire sul parapetto e lasciarsi cadere nelle acque gelide.

Se ne era andato in silenzio come quel giorno in cui lo incontrai. Forse mi aveva raccontato la sua storia per trovare la forza di compiere quell'ultimo gesto o forse il semplice raccontarla a uno sconosciuto era un modo come un altro per lasciare un suo ricordo nella memoria del mondo.
Quello che mi rincresce è che non seppi mai il suo nome, e lui non si preoccupò di dirmelo.

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