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lunedì 25 giugno 2012

Nameless

Senza fissa dimora


Era inverno e faceva molto freddo quella mattina. L'aria era gelida e pungente, ma il cielo era sereno. Parigi era ancora addormentata e camminavo lungo la banchina della Senna. Una leggera nebbiolina saliva dalle acque che scorrevano lente non ancora battute dai primi battelli.
Al mattino presto la città ha sempre un fascino particolare. I turisti dormono ancora nelle loro belle camere d'albergo e Parigi sembra una donna affascinante che si sta facendo bella davanti allo specchio.
Lungo la banchina un cane mi veniva incontro con la testa ciondoloni annusando una pista che solo lui sentiva. Mi passò oltre come se non esistessi. Era diventato un rituale quello di camminare lungo la Senna al mattino presto nelle mie domeniche di noia. Mi aiuta a non pensare, e talvolta a riordinare le idee che confusamente si affacciano di giorno.
In prossimità di un ponte sotto un mucchio di cartoni ammassati a mo' di casetta un uomo si stava svegliando. Mi domandai come facesse a resistere al freddo.
Ho sempre avuto un occhio di riguardo per i senza fissa dimora o per gli alcolizzati. Mi ricordavano mio padre. Era caduto nel vizio dell'alcool dopo la perdita del lavoro. Il prestigio che si era costruito in una vita di sacrifici era sfumato nel giro di pochi mesi e per lui l'alcool sembrava la via meno dolorosa da seguire per vincere l'umiliazione.
Mi avvicinai all'uomo che mi guardò assonnato. Tossì e si stropicciò gli occhi chiedendomi se avessi una sigaretta. Indossava due cappotti uno sopra l'altro, un paio di guanti di lana consunti come le scarpe logore e con le stringhe slacciate. I capelli castani arruffati e sporchi. La barba incolta, sudicia, le guance arrossate dal freddo e dall'alcool.
Aveva un'espressione malinconica negli occhi azzurri con cui mi guardava.
Allungò una mano e si prese una sigaretta dal pacchetto.
"Grazie, questa bionda me la fumo dopo, col suo permesso."
Sistemò la sigaretta nel taschino del primo logoro cappotto di lana grigia sfregandosi le mani. Aveva modi gentili malgrado l'aspetto trasandato e parlava con una leggera inflessione del sud. Non doveva essere nato a Parigi.
Gli chiesi da dove veniva e la sua risposta fu disarmante, mostrando una sagacia fuori dal comune. Aprì il braccio alla sua destra puntando l'indice in quella direzione.
"Vengo da là e andrò di qua - rispose spostando il braccio a indicare la direzione opposta - e poi forse chissà."
Mi sentii un perfetto idiota e convenni che me l'ero meritata. Tentai di cavarmela complimentandomi per la battuta.
Scosse il capo e si tirò in piedi scrollando il fondo della bottiglia di birra che aveva in mano.
"Non è affatto una battuta." Se la portò alla bocca e bevve quell'ultimo sorso rimasto lasciandola cadere in un sacchetto di plastica nero pieno dei cadaveri di altre bottiglie.
"Tutti veniamo da qualche parte. Vicino o lontano non ha più importanza quando vivi sotto un ponte. Quello che conta è l'ultima strada da dove vieni.
Il resto te lo sei già dimenticato da un pezzo. E dove vado io mi porto dietro le mie schifezze. Dove vado io, non sporco. Faccio come gli scarafaggi che vi fanno tanto schifo. Loro sono puliti, vivono nell'immondizia, ma sono puliti. E io le mie bottiglie, le raccolgo tutte e quando ho riempito il sacco poi ci faccio qualche moneta.
Per questo bevo, per svuotare le bottiglie e fare soldi coi vuoti. Ma ancora non ho capito perché non sono diventato ricco, con tutto quello che mi sono scolato."
Si chinò a sistemare con cura i suoi cartoni - la sua casa, disse - e prese il suo sacco nero trascinandolo verso un carrellino del supermercato dove teneva le sue poche cose.
Risposi che aveva perfettamente ragione e gli feci i complimenti per il ragionamento scusandomi per la mia invadenza.
Agitò le braccia nell'aria gesticolando verso di me, come se l'avesse offeso, parlandomi tuttavia con estrema calma.
"Se sei in vena di compatirmi tieni pure la tua sigaretta e vattene."
Non volevo scatenare la sua reazione e tentai di scusarmi nuovamente.
Raggiunse il suo carrello e gettò il sacco delle bottiglie sopra tutte le altre cose accatastate, spingendolo contro il muro. Tornò a sedersi poggiando le spalle al muro, sopra i cartoni e mi guardò.
"Tu invece, cosa fai in giro a quest'ora. Tua moglie ti sbattuto fuori di casa?"
"Quello è già successo un po' di tempo fa - risposi - e non è stata lei a sbattermi fuori. Me ne sono andato io."
Fece di si col capo fissando il vuoto davanti ai suoi occhi in direzione della Senna.
"E perché te ne sei andato? Hai figli?"
Sembrava che si divertisse a girare il coltello nelle piaghe del mio passato. Mi guardò in faccia mentre mi accendevo una sigaretta. Il fumo si elevò in un vortice verso la volta del ponte.
Risposi che erano tanti i motivi di quella scelta e che no, non avevo figli. Che li avremmo anche voluti ma che non erano mai arrivati chissà per quale motivo. Che il desiderio di mia moglie finì per diventare causa di attriti e incomprensioni che svuotarono il nostro rapporto di ogni significato. E che comunque quella non era l'unica ragione e che sarebbe finita così ugualmente con o senza figli.
La sirena di un primo battello si sovrappose alle sue parole.
"Tanti motivi, nessun motivo. C'è sempre un motivo che ti fa prendere una decisione. Quando cammini su una strada anche se ti sembra che stai andando senza meta, in realtà decidi di continuo. Destra, sinistra, dritto.
E c'è sempre qualcosa, o qualcuno che ti porta lì. Ma è più facile dire il contrario."
Risposi che non tutti avevano occhi per vedere come lui, che quello che diceva era vero, ma che ci voleva coraggio a guardarsi dentro, un coraggio che forse mi mancava.
"Usate tutti il coraggio come scusa - rispose - ma non è una questione di coraggio. Guarda me, vivo sotto i ponti da quasi dieci anni, ma ti posso garantire che se fosse solo una questione di coraggio sarei già scappato da qualche altra parte. Ti sei mai chiesto perché un barbone non si scelga un posto un po' meno freddo dove passare l'inverno?"
Non era la prima volta che parlavo con un senza fissa dimora, ma da come parlava, da come ordinava i pensieri e li esponeva con insolita lucidità capivo che mi trovavo davanti a una persona profonda, finita sulla strada per chissà quale motivo. Non osai chiederlo. E la curiosità mi metteva in imbarazzo di fronte a lui.
Mi accorsi che mi stava squadrando con quei suoi occhi azzurri e mi fissava.
"Che c'è, hai finito gli argomenti?"
"No, o forse si. Ma mi domandavo come mai una persona come lei sia finita a vivere in questo modo."
Abbassò un cartone e mi fece segno di sedermi.
"Non ho voglia di raccontartelo. Non ne capisco il motivo. Tu e tutti i borghesi come te, venite qui, ci fate la carità di una sigaretta e sperate di mettervi l'anima in pace facendo finta di interessarvi a noi che viviamo in questo modo. Il tuo mondo è il tuo mondo. E' il mio mondo è questo. Altre regole, altro modo di vivere. Altro modo di pensare."
Si accese la sigaretta che gli avevo dato con fiammifero in legno. L'accese al primo colpo e rise.
" Vedi? Qui non si spreca nemmeno un fiammifero. Tutto ha valore. Anche le cose che voi buttate. Non hai idea di quando roba si trovi a rovistare nei rifiuti."
Non so perché stessi li seduto con lui ad ascoltare. Mi parlava senza mai perdere il filo del discorso, quasi senza lasciarmi modo di rispondere.
"Voi pensate solo a quello che possedete, alle case, alle macchine, ai soldi che avete in banca. Anche le donne per voi sono diventate una questione di possesso. È un mondo che ha rinunciato all'amore, fa solo finta di essere quello che non è più da tempo."
Aspirava il fumo della sigaretta con estrema cautela proteggendola dal vento con la mano, quasi volesse impedirle di consumarsi.
"Gli uomini hanno bisogno di avere, perché non sono più capaci di essere. Questo è il punto."
Il cane che avevo incontrato in precedenza era di ritorno. E lui fischiò. Si fermò con le orecchie ritte voltando il capo verso di noi, come se conoscesse quel richiamo. L'uomo prese un bastoncino e lo lanciò oltre il parapetto della Senna. Il cane si precipitò a cercarlo invano poi se ne andò.
"Tra bastardi, come vedi, ci si intende e ci si rispetta sempre, e qualche volta si gioca." Spense la sigaretta che si era consumata ormai fino al filtro e tossì forte.
Feci per alzarmi e mi fermò posandomi una mano sopra il ginocchio.
"Te ne vai di già amico? Sei stanco di sentire le mie prediche?"
Gli risposi che avevo un appuntamento ma che potevo restare ancora un po' se gli faceva piacere.
Anche lui non parve dispiaciuto all'idea che restassi. Forse non era così vera quell'aria di distacco che aveva nei confronti del mondo, forse dopotutto anche una semplice conversazione come quella doveva pur sempre rappresentare per lui un diversivo, rispetto alla solitudine delle sue giornate.
"In passato ero come te, come tutti voi, anch'io con la mia bella vita. Un posto di lavoro ben pagato, gli amici, le cene, i ristoranti. Non vivevo nel lusso, ma non facevo nemmeno la fame. Avevo una donna bellissima, bionda con la risata cristallina. Occhi verdi che sembrava ti parlassero. Era così bella che tutti si voltavano a guardarci quando si passeggiava a braccetto per Montmartre. L'amavo, ci amavamo alla follia."
Ascoltavo in silenzio le sue parole come segno di doveroso rispetto verso quel gesto che stava compiendo. Avevo la sensazione che il raccontarmi la sua storia gli servisse a rendere meno pesante il fardello che stava portando. O forse semplicemente era il suo modo di ringraziarmi per avergli dedicato del tempo.
"Volevamo un figlio. A tutti i costi. Era l'unica cosa che ci mancava. Era aprile e l'aria era fresca e frizzante quando tornò dal lavoro e mi disse che era in cinta. Che gioia quel giorno. Eravamo pazzi di gioia."
Il tono della voce era cambiato ma il suo sguardo fissava la Senna in un punto indefinito.
"Sembrava che tutto andasse bene, amico mio. Ma non andò così. A un mese dal parto accusò dei dolori lancinanti una notte. Disperati corremmo di corsa all'ospedale ma ci fu poco da fare. Il bambino nacque prematuro e morto.
Lei non si dette pace da quel giorno. Era come se nei suoi occhi si fosse spenta la luce della vita prima ancora di morire. Si gettò da questo ponte una sera di dicembre. Si lanciò da lì. Dovettero dragare tutto il corso del fiume fino alle porte città, per ritrovarla. Ed è questa la ragione per la quale io vivo qui. Avessi il suo stesso coraggio l'avrei già seguita."
Gli offrii un'altra sigaretta, lui prese una bottiglia di vino da pochi soldi e mi offrì di bere. Lo scambio mi sembrò equo e rifiutare sarebbe stata un'offesa che non si meritava.
"Sono passati dieci anni, e tutte le mattine quando mi sveglio penso di aver scontato abbastanza la mia pena prima di farla finita come lei. Prima di raggiungerla. Ma quando sono sul punto dal quale lei si è gettata lasciando il suo impermeabile a terra, mi convinco sempre che un giorno in più di tormento posso ancora sopportarlo. Un giorno dopo l'altro e gli anni passano, ma non la sofferenza. Non il dolore per non essere riuscito ad aiutarla."
Si riprese la bottiglia e ne bevve ancora un sorso, poi se la infilò nella tasca semi strappata del cappotto e si alzò.
Se ne andò via senza dire alcuna parola, senza voltarsi mai a guardarmi lasciandomi solo con la sua stessa pena nel cuore spingendo lentamente il suo carrello.
Un paio di giorni più tardi i giornali riportarono la notizia del ritrovamento del cadavere di un senza fissa dimora caduto nella Senna. Non potei non pensare a lui. Era stato visto salire sul parapetto e lasciarsi cadere nelle acque gelide.

Se ne era andato in silenzio come quel giorno in cui lo incontrai. Forse mi aveva raccontato la sua storia per trovare la forza di compiere quell'ultimo gesto o forse il semplice raccontarla a uno sconosciuto era un modo come un altro per lasciare un suo ricordo nella memoria del mondo.
Quello che mi rincresce è che non seppi mai il suo nome, e lui non si preoccupò di dirmelo.

sabato 23 giugno 2012

Di rime e altro


Il falco


Dai bastioni del mio palazzo
osservo nella mia solitudine,
il mio falco volar alto nel cielo.
Le ali distese in ampi giri,
osserva e scruta l'orizzonte
come fosse l'anima mia.
Solo lui m' è devoto,
a ogni mio richiamo accorre.
Chissà cosa sogna la notte,
quando paziente attende
il primo raggio di sole
del mattino.
 
 _____________
 
Clessidra



Granello dopo granello
la clessidra si riempie e si svuota.
E il tempo scorre via infinito,
lasciando dietro la sua scia di ricordi.
Un punto dopo l'altro,
come in una linea infinita,
come le linee in uno spazio,
come parole senza fine.
Non c'è azione o gesto
che un uomo compia,
che non siano già stata compiuta.
Nulla di nuovo può più essere detto o inventato.
Futuro e passato altro non sono
che i punti di quella linea
che si perde nel tempo e nello spazio
nel quale noi, naufraghi, vaghiamo.
Così, in questa clessidra
che scivola i suoi grani verso il basso
contiamo i nostri attimi
dimenticando ciò che il destino
aveva scritto nell'infinito
labirinto del tempo.





______________________________



Re e Regine




Un pezzo dopo l'altro,
se ne vanno come pedine
le anime perse
di questa partita.
Come ombre,
su una scacchiera
ormai vuota
dove false Regine
muovevano i loro passi.
Nero e bianco,
tutto intorno
solo gli amici di sempre
restano, veri e sicuri,
Svelati gli arcani misteri,
sorrido alle tristezze del mondo.
________________
 
I Bastioni di Orione

 
Ora che il clangore delle armi
va spegnendosi alla luce degli astri,
il guerriero stanco,
ancor vivo, ferito,
si sottrae al campo di battaglia.
Lo sguardo impaurito,
scruta l'orizzonte
e accoglie, con gesti misurati,
precisi, definitivi,
quanto resta di una piccola,
ostinata follia..
condurre una battaglia,
senza l'orrore del sangue,
dove le spade diventano parole,
e mani e gesti, e sguardi..
possenti come i Bastioni di Orione.









 



 




venerdì 22 giugno 2012

Voluttuose labbra



"Voluttuose labbra 
che mi dite voi
della lussuria? Cosa sapete?"
Tacquero silenti alle mie parole
con il lor color perlaceo
e nulla mi risposero...

"Dischiudetevi, parlatemi
non siate assenti!
Ditemi della bramosia, 
o della passione che è tormento..."
Silenziose ancora e immobili
parvero restare, scosse sol da un leggero
tremito, ma nuovamente tacquero

"E del candore o della dolcezza
che i brividi sa dare, sapete voi
mostrami la strada?"
Si schiusero allora in un sorriso lieve
quelle carnose labbra e avvolsero le
mie in un voluttuoso bacio.
Sazio della risposta.. senza parole mi lasciò.



martedì 19 giugno 2012

Stupido foglio bianco



La sveglia sembrò suonare più forte del solito quella mattina. Max dormiva ancora profondamente quando venne destato dall’insistenza intermittente del trillo.
Provò a nascondere la testa sotto il cuscino, mentre allungava una mano per cercare di fermare la sveglia. “Drin, drin, drin...”.
Con fatica trovò il pulsante d’arresto, lamentandosi nel dormiveglia del mattino.
“Ancora un giorno e poi … vacanza!!” – esclamò fra sé e sé.
Aspettò ancora qualche minuto e infine si alzò stropicciandosi gli occhi.
In cucina la sorellina più piccola stava facendo colazione con latte e biscotti davanti alla televisione accesa.
“Buongiorno Max, che brutta cera hai oggi” gli disse senza distogliere lo sguardo dal televisore.
Max si stirò e sbadigliando prese una tazza versandosi del latte ancora caldo.
“Giorno – rispose in modo sbrigativo – Mamma è già uscita vero?”
La sorellina annuì continuando a guardare la televisione.
Non si dissero altre parole fino a quando non furono entrambi pronti per uscire di casa, e si avviarono per la stradina che portava alla fermata dello scuola bus.
L’aria fredda e pungente sferzava i loro visi, ed il cielo era velato di grigio ma non pioveva.
Max teneva per mano la sorellina come faceva tutte le mattine, mentre percorreva il vialetto della piccola villetta dove abitava, in Santa Clara Avenue, nella periferia nord di Ithaca, California.
Suo padre, Ulisse, era partito per un lungo viaggio di lavoro, imbarcato su una nave mercantile in giro da qualche parte per il mondo, sarebbe ritornato solo per la vigilia di Natale, e lui era impaziente di rivederlo.
La madre lavorava in un grande centro commerciale, e quando si avvicinavano le feste, spesso era costretta ad uscire di casa al mattino presto, lasciando a Max il compito di occuparsi della piccola Clarence.
Era una sensazione che lo faceva sentire grande, quella di occuparsi della sorellina e lui ne andava orgoglioso e fiero.
Lo scuolabus arrivò puntuale come tutte le mattine, e sulla soglia della scuola si salutarono con un cenno della mano.
Max, si avviò per il corridoio che portava alla classe in compagnia di alcuni amici.
Era la vigilia delle vacanze di Natale e tutti si sentivano elettrizzati.
Perfino la maestra sembrava non aver molta voglia di lavorare, così disse a tutti di prendere un foglio e assegnò un compito.
“Bene ragazzi, oggi vorrei assegnarvi un compito diverso dal solito. Niente storia, geografia o matematica. Vorrei che ciascuno di voi esprimesse cosa si aspetta dal Natale, nel modo che più gli aggrada. Potete disegnare, scrivere una poesia, fare un tema. Oggi vi lascio scegliere, l’importante è che possiate esprimere ciò che per voi rappresenta il Natale”.
La classe fu scossa da un leggero fremito di entusiasmo, mentre Max incredulo si grattò il capo non troppo convinto.
“No, uffa, non era meglio una bella partita di basket?” pensò.
Svogliato rimase davanti al foglio bianco senza sapere cosa fare.
Non sapendo disegnare molto bene decise di scrivere un tema, anche se ben sapeva di non essere una cima in lettere.
Guardò i suoi compagni e li vide tutti presi dal loro lavoro. Alcuni avevano già disegnato sui loro fogli l’immagine di Babbo Natale con tanto di slitte e renne, altri un abete ricoperto di luminose palline colorate, lui invece era ancora indeciso su cosa fare.
Il tempo passava, ma il foglio rimaneva bianco. Nulla sembrava volesse uscire dalla penna che teneva nervosamente fra le mani.
Si mise a guardare fuori dalla finestra, poi improvvisamente iniziò a scrivere.
“Stupido foglio bianco, eccomi qui come sempre incapace di scrivere. Tu lo sai bene che non ci so fare con le parole. Ti vedo sai, che ti stai burlando di me. Li riconosci subito quelli che hanno difficoltà a mettere due parole in croce, vero?
Certo, preferisci quelli che invece appena ti vedono si buttano a capofitto su di te e ti riempiono di parole e parole.
Beh, purtroppo io non sono tra quelli, e ad essere sincero non mi dispiace nemmeno. Ognuno ho i suoi difetti, io son fatto così: non mi riesce bene a scrivere.”
Mentre scriveva, Max fu assalito da una strana sensazione: non gli era mai piaciuto così tanto scrivere come quella mattina.
Le parole all’improvviso gli scaturivano spontanee senza nemmeno doverci stare a pensare su troppo.
“Ora però che ci penso, anche tu, “stupido foglio bianco” senza di noi saresti a corto di parole, non trovi? Quindi come vedi forse abbiamo più cose in comune di quanto tu non possa immaginare. E scommetto che muori d’indivia per non essere uno di quei fogli di giornale pieno zeppo di parole e titoloni e immagini.”
Sorrise soddisfatto di sé, mentre rileggeva l’ultimo verso mordicchiandosi la penna.
“Dunque, tu “stupido foglio bianco” vorresti sapere cosa mi aspetto da questo Natale.
Che pretesa!! Se solo lo sapessi, forse, e guarda che sono gentile a dire forse, potrei scrivertelo. Il bello è che proprio non so cosa aspettarmi da questo Natale. Non credo che sarà diverso da tutti quelli che ho trascorso fino ad oggi e non vedo motivi per cui dovrebbe esserlo.
Del resto, basta che leggi uno di quei fogli di giornale che tanto invidi, per renderti conto che il regalo più bello che ci si possa augurare sarebbe quello di non leggere per un giorno nessuna notizia.
Pensa, un giornale completamente bianco: nessuna notizia né buona né cattiva.
Sarebbe un gran bel compromesso non trovi?
Si fermò un istante ad osservare la classe, la maestra era intenta a riordinare alcuni fogli, mentre i suoi compagni sembravano presi quanto lui dal loro compito.
Già questo gli parve strano: anche i più vivaci della classe, quelli che erano soliti sorbirsi i rimproveri e le punizioni più pesanti, erano molto presi da ciò che stavano facendo.
Rilesse un paio di volte il suo tema e poi riprese a scrivere.
“Forse ti sembrerà strano che abbia già scritto così tanto, e sincerità per sincerità, devo ammettere che anche a me fa un certo effetto. Non mi ero mai divertito così tanto a scrivere, te lo giuro!”
Tornò a sorridere ripensando a quella strana sensazione che lo avvolgeva.
“Lo so, lo so, non c’è bisogno che me lo ricordi: sto girando attorno al problema. Ma ti assicuro che non è facile. Potrei scriverti quello che vorrei: mi piacerebbe avere un sacco di regali, certo, per esempio un bicicletta nuova, o un nuovo guantone da baseball o perché no anche tutte e due insieme.
E invece, no, amico mio. Niente lista dei regali. Niente cose materiali. Quello che vorrei è così lungo che tu non basti nemmeno per poterlo indicare.
Quindi mi limiterò a farti un riassuntino, sempre che tu sia d’accordo.
Allora iniziamo? Hai voglia di stare a sentire?
Prima cosa: Niente guerre. Ecco cosa vorrei. Vorrei davvero svegliarmi e poter leggere su un giornale che in nessun paese al mondo ci sia stato uno scontro. Nulla.
Seconda cosa: Niente fame, miseria e povertà. E non ridere sai? Lo so cosa stai pensando. Che sono il solito sognatore, il solito illuso, che se voglio riempire un foglio di cose serie e vere, dovrei scrivere proprio del contrario.
Terza cosa: niente malattie, niente sofferenza. Mi da pena sapere che c’è un sacco di gente che soffre negli ospedali, o peggio ancora che non ha nemmeno le medicine per curarsi. Chiedo troppo? Questo è quello che vorrei, questo è quello che mi aspetto!
Temo di si, chiedo troppo, lo so. Ragion per cui non chiederò altro. Sarò forse patetico come pensi tu, ma queste sono le cose che vorrei.”
Si fermò un istante e il pensiero volò al ricordo del viso di suo padre, sapendo che tra qualche giorno l’avrebbe rivisto e già quello gli sembrava un grande regalo. Poi tornò a rivolgere la sua attenzione al foglio, a quello stupido foglio bianco che ormai tanto bianco non era, restando ancora assorto nei suoi pensieri.
Infine prese la penna e senza aggiungere altro scrisse. FINE.

lunedì 18 giugno 2012

Due fratelli


(novella in stile antico)

Due fratelli, ogni giorno di buon ora
si recavano al lavoro nei campi
del loro Signore.
"Vedrai che presto lascerò questa zappa
e sarò cavaliere,
altro non sogno di fare.."
diceva
il più grande dei due al fratello.
L'altro silenzioso si limitava
a zappare il duro terreno,
colpo dopo colpo e nulla diceva
dei suoi sogni o delle sue speranze.
E al suo silenzio il più grande
lo scherniva con parole piene
di insulti.
"A nulla vali, se non hai ambizioni,
se non hai sogni, guardati..
non sai fare altro che zappare
e tale rimarrai a vita.."

La notte, mentre il più grande
dei due dormiva, sognando
ciò che non sarebbe mai stato,
l'altro in segreto, si alzava
e duramente s'allenava
a usar l'armi, e spade e balestre.
Un giorno le loro strade si divisero
e del più giovane nessuno
seppe più nulla.

Passarono anni e al campo

ancora duramente lavorava
il fratello più grande,
coi suoi sogni e le sue speranze,
ancor intatte, quando un dì,
un cavaliere di tutto punto armato
e con splendida armatura
si fermò al suo cospetto.
Nell'alzar la visiera, il più grande
riconobbe il fratello scomparso
e prese a maledire il fato.
"Ah fato maledetto, destino infame
a me nulla hai concesso,
e a lui invece perfino l'armatura.."

Il cavaliere nemmeno
allora disse una parola.
Riabbassò la visiera, e spronò
il cavallo al trotto.

Surreale paesaggio




Dove vanno a finire i pensieri di una persona...
quando tutto si ferma...
quando le mani non hanno peso...
e il respiro è un soffio di vento leggero...
gli occhi persi nel buio.
Dove si rifugiano i pensieri?
in quale angolo remoto del cervello sopravvivono..
circondati dal buio, dal silenzio...


Sei troppo vivo per essere morto
e troppo morto per essere vivo...
E' davvero solo il cuore che ci anima?
o si è sospesi in un limbo silenzioso e freddo
che ti protegge prima che tutto si spenga...


Dove vanno a finire i ricordi di una vita?
Le carezze e i baci... e le risa di fanciullo
quando le mani rimangono immobili
quando gli occhi si chiudono... dove?
Quale forza può riportarli in vita
quale energia può riprendersi un corpo inerme..
prima che tutto scompaia per sempre
avvolto nella nebbia di un paesaggio surreale.


(dedicato a mia madre, scritto in verde con il colore della speranza)



Il mendicante cieco

(esercizio di scrittura creativa in modo antico)




All'angolo della strada,
seduto se ne stava
un mendicante cieco
e sulla sua cetra stanca,
lentamente intonava
i suoi lai
in tormentati giri...

Quand'ecco che una dama giunge
tutta trafelata e rossa in viso
per il camminar fatto
e a lui domanda
senza nemmeno curarsi di capire
chi sia e cosa stia facendo:
"Ehi voi, per caso avete visto
passar da poco un cavaliere?
Di lui seguivo le tracce
e ora a questo bivio giungo
e trovo il nulla..."

Poco si scompone il musico cieco,
e nemmeno smette di suonare
fissando il vuoto innanzi
ai suoi occhi bui.
Ed ella al suo silenzio
subito prende a inveire
e a malo modo lo tratta.

"V'ho fatto una domanda,
siete sordo forse
a chi vi chiede?
O in così poca stima
avete il tormento altrui,
troppo preso a torturar
le corde del vostro strumento?"

E lui, nemmeno si scompone,
e il suon però interrompe
alla dominante nota,
lasciando che il suon sospeso
nell'aere stia.

"Per di là, per quella strada"
replica senza scomporsi.
"Ma al nulla giungerete sempre,
se di lui seguirete solo le tracce,
perdendo di vista chi le lascia..."

Ed ella al suo dir
nulla risponde
prendendo per false
le sue parole oscure,
per la parte opposta
se ne va, agitando l'aria
col mantello,
scambiando i passi
di un bifolco
per quelli del suo amato.







Formiche



Seduta sul uno coglio, la ragazza guardava il mare. Il mare era la sua passione. Lo osservava in silenzio con la mente assorta in mille pensieri. Vi era nata sul mare. Staccarsi da lui era sempre una pena oltre che un tormento che durava fino a che non vi ritornava. Senza il mare la sua vita era senza colore.


Quel giorno il sole era velato e le onde si infrangevano sugli scogli leggermente increspate dal vento.
Era seduta abbracciando le ginocchia sulle quali appoggiava il mento, incurante dei passanti che la osservavano.
Quando guardava il mare il mondo le si chiudeva intorno. C'erano solo lei e il mare. Nemmeno il vento che le scompigliava i capelli esisteva.
Le immagini correvano nella veloci nella sua mente, specialmente quando nel suo animo si agitavano inquieti fantasmi.
Chiuse gli occhi e si ritrovò in un prato mentre dormiva sull'erba circondata dal colore rosso dei papaveri. Mosso dal vento uno di essi le sfiorò il viso con i petali e il ricordo di mille carezze le venne alla mente.
Distese le braccia come se in quel mare d'erba si potesse nuotare e con i palmi delle mani accarezzò la superficie di quel nuovo mare verde.
Sentì i petali dei papaveri sotto le dita, i loro gambi rugosi, e assaporò il fresco profumo dell'erba che risaliva fino alla sua pelle.
Aprì gli occhi e rivide il mare davanti a sé, che lentamente riprendeva il suo colore naturale, il suo solito colore.
Una ciocca dei suoi lunghi capelli lisci le lambì il viso mossa dal vento, lei la scostò con un gesto antico e involontario.
Spostò lo sguardo sullo scoglio e vide una formica. Trascinava un chicco di grano capitato lì da chissà dove.
La formica si sforzava di spingerlo in ogni modo verso il formicaio, ma malgrado i suoi sforzi il chicco rimaneva pressappoco dov'era sempre stato.
"Ecco - pensò - più cerca di muovere il chicco più il chicco resta fermo, finirà con perdere le forze e se ne andrà… "
Altre formiche si muovevano tutte intorno, e tutte indaffaratissime, veloci e rapide nel compiere il loro lavoro. Ne osservò un'altra che portava una piccola briciola, correre veloce e sicura, e in un attimo scomparve nel formicaio.
Prese a parlare alla formica che invano trascinava il suo chicco.
"Piccola formica - disse - desisti dal tuo sforzo, non ce la farai mai, non lo vedi che è troppo grosso per te?"
Ma la formica non si dava per vinta, girò intorno al chicco e infine parve arrendersi. Si fermò un istante e poi se ne andò rapida per la sua strada.
"Ecco, hai visto, è troppo grande quel chicco" disse.
Subito dopo ne arrivò un'altra. Ispezionò il chicco e sembrò compiaciuta di aver trovato un chicco tanto grande.
"Formichina, formichina, desisti - disse - ci ha già provato la tua amica, non puoi muovere quel chicco è troppo grande per te.."
Ma la formica non si perse d'animo, fece un ultimo giro per ispezionarlo e andò verso un'altra formica che passava a poca distanza e insieme ritornarono al chicco iniziando a spingerlo verso il formicaio.
La ragazza rimase a guardare fino a quando non fu del tutto scomparso, e si soffermò a pensare. Poi si alzò, guardò il mare per un'ultima volta e tornò verso casa.
"Formiche - pensò - formiche..."



venerdì 15 giugno 2012

America



a mio Padre

Talvolta mi succede anche il contrario:
che mi appare come irreale ciò
che ho vissuto realmente.

Heinrich Böll

La prima volta che ho sentito parlare di questa storia avevo 13 anni. E fino da allora la sentii mia. La feci più o meno mia e mi rimase forte la sensazione di averla in qualche modo attraversata o forse solo sfiorata. Ad ogni modo questa storia mi entrò dentro al punto che non sarebbe più uscita.
Riapparve senza volere una sera di dicembre in cui non riuscivo a prender sonno. Era quasi mezzanotte quando iniziai a scrivere.
Una storie di quelle in grado di cambiare la vita, le speranze, e il destino di una persona. Una di quelle storie che ti guidano attraverso i sogni o la realtà, ma senza inganno, senza crudeltà, per comprendere le quali forse non basta neppure il tempo di una esistenza intera.
Una storia non facile da raccontare, tanto più se vissuta con lo sguardo di un ragazzino e descritta oggi con gli occhi di un adulto ( o presunto tale).
E se si riferisce ad una persona cara, come può esserlo il padre per un figlio, allora il compito di descriverla diventa ancora più difficile, perché il passato e il presente tendono a confondersi come in un infinito gioco di specchi, dove ogni cosa si rimescola senza tuttavia fondersi del tutto.
Così immergersi ora e qui in questo racconto è come immergersi in un passato che, come spesso accade, porta direttamente a noi stessi.

***
Da poco più di un anno era stato assunto con la qualifica di decoratore generico in una fabbrica di porcellane e per lui, così giovane e sposato da poco, era stata una vera fortuna. Erano gli anni del primo dopoguerra e il ricordo della prigionia in un campo di concentramento tedesco era ancora troppo fresco per lui. Quel lavoro l'aveva fatto rinascere.
Si occupava di semplici decorazioni e piccole greche fatte a mano su piatti e vasellami destinati ai mercati più prestigiosi dell’estero o delle grandi città.
Fin da bambino il disegno, la pittura, e l'arte, lo avevano attratto fortemente e solo la sfortuna degli anni passati nelle peripezie della seconda guerra mondiale, nonché la determinata opposizione di una madre severa e ostile, gli avevano impedito di percorre con maggiore successo quella strada.
Ma a lui tutto ciò non interessava. Non che non comprendesse il suo talento, ma era come se la cosa fosse in qualche misura fosse secondaria rispetto a un progetto di altra natura che, in modo a lui non chiaro, finiva suo malgrado per prendere il sopravvento.
Detto semplicemente gli stava bene così, anche perché era una persona capace di farsi ben volere da tutti e di trarre da chiunque o da qualunque circostanza una qualsivoglia lezione positiva.
Forse per via di quel suo sorrisetto che spuntava dietro quei lucidi baffi neri, usato come una specie di grimaldello per conquistarsi la fiducia della gente. O per via del suo sguardo deciso, racchiuso da neri capelli portati alla mascagna che incorniciavano un viso dalla fronte alta e dal profilo attento e leggermente appuntito, in grado di attirare non solo gli sguardi ammirati delle donne.
Forse per la facilità con cui era solito ricorrere a battute spiritose e ironiche, veniva spesso considerato di buona compagnia dagli amici e conoscenti, ma anche un amico sincero e prezioso.
Quel giorno, finita l'ultima informata, appena prima dello scoccare della sirena di mezzogiorno, il principale lo mandò a chiamare.
Posò il pennello nel bicchiere d'acqua sporca sul bancone di lavoro e con uno straccio si pulì le mani non senza una qualche sorta di preoccupazione. Fece per dire qualcosa di spiritoso, ma questa volta non gli uscì nulla, e posato lo straccio sul tavolo si incamminò.
La fabbrica di ceramica non era di grosse dimensioni e ciò malgrado si estendeva su un territorio abbastanza ampio.
A fianco del capannone dove lavorava, ovvero il reparto di rifinitura e decorazione, ce ne erano altri sparsi sui vari lati e ognuno con la sua funzione.
Staccati dal resto della fabbrica c'erano i forni, il deposito degli scarti e la pressa per la frantumazione degli scarti e poco più in là un alto capannone adibito a deposto di materiale grezzo, gessi e o argille che nelle giornate ventose come quella depositavano su uomini e cose un leggero strato di impalpabile polvere biancastra.
Gli uffici erano ricavati in una dependance vicino al deposito degli imballaggi, non distante dalla casa padronale che si trovava a ridosso dell’ingresso.
Attraversò il cortile con passo spedito sollevandosi il bavero del grembiule per ripararsi in qualche modo dal vento. Era una giornata di fine ottobre. Il cielo era sereno ma tirava un vento fresco e frizzante. Una di quelle giornate che annunciano l’avvicinarsi della stagione invernale e passando a fianco al piccolo deposito di biciclette non poté fare a meno di rammaricarsi della fine dell'estate appena trascorsa.
Era solito percorrere i venti chilometri che lo separavano da casa, più gli altrettanti per il ritorno, pedalando di buona lena, e in estate era una sfida piacevole da vincere oltre che un ottimo esercizio per mantenersi in forma, ma la sola idea che da lì a qualche giorno tutto sarebbe cambiato con l'avvicinarsi dell'inverno lo mise di pessimo umore.
Così si preparò ad affrontare il principale con la ragionevole e quanto mai errata supposizione che gli stesse per arrivare una brutta notizia.
Arrivò davanti alla porta e si pulì i piedi sullo zerbino impolverato nei confronti del quale le sue scarpe non avevano nulla da rimproverarsi. Si spolverò velocemente il grembiule e si risistemò il bavero e infine bussò.
"Avanti" disse con tono deciso il principale.
Girò la maniglia e sospinse un po’ la porta che oppose una leggera resistenza.
"Ah, si, accomodati Giovanni!"
Si avvicinò a una sedia, di quelle tipiche da ufficio con le sottili gambe in acciaio e il sedile leggermente imbottito ricoperto di una finta pelle color bordeaux, della quale era rivestito anche il piccolo schienale.
Si sedette di fronte alla scrivania completamente ricoperta da carte, da lettere di commesse, fatture, contro le quali cercava disperatamente di lottare un portapenne nero montato su una base di cristallo abbastanza spessa da formare una linea verdastra ai suoi piedi e sul quale era posto anche un calendario giornaliero coi numeri rossi e sgargianti, di quelli che da bambini si faceva a gara per staccare il foglio del giorno appena passato per lasciare il posto a quello nuovo.
Erano l' unica cosa vivace e colorata di quell'ufficio un po’ triste e grigio, nel quale l'unico vero padrone sembrava essere il caos degnamente assistito da uno strato di polvere finissima che ammantava ogni cosa.
Su un tavolino metallico più basso, staccato dalla scrivania, stavano il telefono, la macchina da scrivere e una lampada da tavolo in ottone con il paralume in vetro verde scuro.
Il principale era un ometto di media statura, dal fisico rotondetto e dal carattere scontroso ma mai arrogante, severo coi dipendenti ma al tempo stesso onesto.
Aveva i capelli rossicci pettinati all'indietro secondo la moda dell'epoca e tutti imbrillantinati.
La sua aria severa e il tono di voce deciso e autoritario, facevano di lui una persona rispettata non solo all’interno della fabbrica. Era anche una persona affabile e in taluni casi, e questo era uno di quelli, smetteva volentieri i panni del datore di lavoro per assumere quelli della persona alla mano, come in fin dei conti era.
Dopo le solite quattro chiacchiere sul tempo, sul come va la famiglia, mi saluti tanto la sua signora Margherita, e passando indifferentemente dal lei al tu e altri discorsi di questo tipo, il signor Pozzi gettò sul fragile tappeto della loro discussione e senza alcun preavviso, rinunciando alla sua parlata dialettale in favore di un più circostanziato quanto impreciso italiano, quanto aveva da dirgli.
"Senti, Giuanin, sto cercando un responsabile per aprire una filiale in Uruguay, a Montevideo, e te mi sembri la persona adatta. Cioè il tipo giusto, insomma, che faccia il capo di tutta la fabbrica, un po' come me, ma solo che deve stare là fisso, capisci, mica posso andarci io avanti e indietro."
Incredulo ascoltò quelle parole e rimase stupito nel leggere un certo imbarazzo sul volto del suo principale mentre le pronunciava.
Rimase seduto con il cuore a mille cercando di articolare una risposta sensata degna di un'offerta di quel tipo, anche se avrebbe voluto d'istinto rispondere con un bel... "certo che ci vado, non ci penso due volte…"
Sebbene la tentazione fosse fortissima, represse quello slancio di irrefrenabile entusiasmo che lo colse.
Sapeva bene che avrebbe dovuto chiedere il parere a sua moglie e a sua madre o forse prima sua madre e poi a sua moglie o comunque in qualunque ordine espresso, avrebbe dovuto rifletterci su.
E così fece.
"E la casa? e il viaggio? e lo stipendio?" – disse come unica risposta.
" Tutto pagato, è ovvio – rispose il principale cogliendo il senso del suo esitare – va da sé che se ti propongo una cosa così è perché tu ci guadagni un sacco di soldi in più e io pure. Certo mi rendo conto che è una decisione che non si può prendere così, su due piedi."
Il principale si passò una mano in tasca e cercò una confezione di sigarette americane Kent col filtro, apprezzate in realtà più che per il loro gusto, per il pacchetto bianco con sottili righe color avorio, con la scritta in rilievo laccato nero, che dava a chi le fumava quel tocco di classe a buon mercato.
Si accese una sigaretta e aspirò una boccata di fumo e ne offrì una al suo dipendente.
"No grazie, non fumo mai prima di sera" gli rispose sincero. Ed era proprio così, fumava solo di sera a fine della giornata di lavoro. Un modo come un altro per rilassarsi senza cadere nel vizio.
"Quanti giorni ho di tempo per pensare? - chiese prima di lasciare l'ufficio - "sa dovrei prima parlare a casa."
Il principale sorrise molto amichevolmente e alzandosi si avviò verso la porta facendogli capire che era ora di andare a mangiare e che avevano già dedicato fin troppo tempo a quel discorso, tanto si erano capiti benissimo.
Non c’è fretta – gli rispose – pensaci su e fammi sapere quando hai deciso.”

Quando rientrò nel capannone i suoi colleghi stavano già mangiando e anche lui fece altrettanto prendendo dal suo armadietto negli spogliatoi il tegame d' acciaio con i viveri portati da casa. Mangiò in silenzio prestando poca attenzione ai discorsi che immancabilmente accompagnavano la pausa.
Nessuno gli chiese nulla, del resto era abitudine del capo chiamare sistematicamente anche per un nonnulla i suoi dipendenti e tutti ormai erano così abituati da non farci più nemmeno caso.
Il viaggio di ritorno con la bicicletta fu il più veloce che avesse mai fatto in vita sua.
La fabbrica distava dalla sua casa circa una ventina di chilometri. A circa metà strada c'era il bivio che portava al paese dove abitava sua madre.
Quando mancavano ormai poche centinaia di metri fu colto dal dubbio su cosa fosse meglio fare: se passare prima da sua madre a chiedere un parere oppure correre a casa dalla moglie senza nessun indugio.
Ci pensò un camion a risolvere il dubbio tagliandogli di netto la strada proprio a metà incrocio obbligandolo a proseguire per la sua strada. Col cuore in gola per lo spavento percorse il resto del percorso in men che non si dica.
Tuttavia non poté fare a meno di pensare al modo in cui sua madre, che esercitava su di lui ancora una certa influenza, avrebbe potuto reagire qualora avesse scoperto di non essere stata avvisata per prima.
Un rapido pensiero corse al giorno in cui, ancora ragazzino e mosso da un entusiasmo simile, entrò raggiante a casa con tela, colori e tutto l'occorrente per dipingere.
Un sogno da tanto tempo cullato e conquistato con i risparmi sudati in tanti piccoli lavoretti e servizi.
Pensò alla delusione e alla severità con la quale questa sua iniziativa fu non solo disapprovata ma addirittura perseguita e punita con la confisca del materiale e la sua relativa distruzione nella stufa di casa.
"Certe idee è meglio togliersele dalla testa subito” – si era sentito dire – “impara l'arte e mettila da parte. Il pittore per me è quello che dipinge le pareti di casa mica i quadri, lazzarone."
Addolorato da quel comportamento, che tuttavia non scalfiva la soggezione nei confronti della madre, arrivò a casa.
Trovò la moglie vicino ai fornelli che lo accolse con un amabile sorriso. Le diede un bacio sulla guancia e posò sul tavolo la borsa con il tegame per il pranzo. Poi andò a lavarsi e a cambiarsi.
Non disse altro. E a tavola non sfiorò l'argomento. Voleva rifletterci bene prima di esporre l'argomento.
La sera a letto faticò a prendere sonno. Si stese come sempre esausto, e malgrado la fatica per l'intera giornata di lavoro e per il viaggio, non riuscì ad addormentarsi.
La sua mente lo proiettava in un unico grande sogno dal quale si svegliava continuamente e nel quale continuamente si reimmergeva.
Immaginava tutto, ogni singola cosa, ogni dettaglio, come se lo stesse già vivendo o lo avessi in qualche modo già vissute: il viaggio in nave, la folla, i saluti al porto, la lunga e noiosa traversata. Le lunghe ore passate sul ponte parlare con la moglie e con le persone incontrate.
"Lei dove va?", "A Montevideo, vado ad aprire una fabbrica di porcellana per conto della ditta dove lavoro, veniteci a trovare se siete di passaggio."
Si vedeva già in sud-America, protagonista in una nuova vita, affrancato dagli orrori che l’esperienza della guerra aveva lasciato nel profondo della sua anima, finalmente libero di proiettarsi in un futuro tutto nuovo.
Il sogno non lo lasciò per diversi giorni, come un inconscio ritorno alla terra dei nonni, sui quali aveva ascoltato da ragazzo gli innumerevoli racconti di sua madre che aveva trascorso alcuni anni della sua vita in Argentina, per poi fare ritorno in giovane età in patria.
Sognava in continuazione sospinto dal movimento del mare. Sognava una fabbrica tutta sua, la più bella fabbrica di ceramica dei tutto il sud-America, la più ricercata per qualità, ogni pezzo firmato a mano direttamente da lui.
La immaginava immersa nel verde lussureggiante di una periferia di una grande città, così diversa dai luoghi in cui era nato e cresciuto.
La madre ormai anziana che si dondolava su una sedia nella fresca ombra del pomeriggio, stringendo in una mano un nero breviario e nell'altra l'immancabile rosario.
Si vide immerso in un nugolo di figli mentre posava per una qualche occasione davanti alla macchina di un premuroso fotografo, insieme alla bella moglie con i capelli soffici e lucenti, che reggeva in braccio la piccola Luz, diminutivo di S. Teresa de la Luz, patrona della vicina chiesa di quartiere.
E rideva ed era felice mentre si faceva arruffare i capelli da uno dei suoi figli minori, mentre gli altri facevano a gara per aggrapparsi alla sua cintura o per conquistarsi un posto vicino a lui, riempiendo l'aria di grida e schiamazzi.
Non gli fu facile rinunciare a quel sogno. Da lì a un paio di giorni dopo averne parlato con la moglie scoprì che erano in attesa del loro figlio primogenito. Non se la sentì di affrontare un viaggio che era diventato improvvisamente un'impresa troppo grande da vincere.
Almeno questo fu quello che il tono della sua voce lasciò trasparire quando raccontò questa storia, ma l'averci rinunciato non fu mai per lui motivo di rimpianto, di delusione, o di commiserazione. La vita gli aveva imposto di scegliere o forse semplicemente di accettare quello che il destino gli aveva riservato, esattamente come per la pittura.
Solo un velo di rammarico si poteva cogliere nel tono della sua voce, ogni volta che per un motivo o per l'altro, gli capitava di raccontare questa storia. 
E l'aver rinunciato al suo sogno, contrariamente a quanto si possa immaginare, divenne un motivo di orgoglio per aver provato almeno una volta a immaginare in quel sogno, qualcosa di grande, di inimmaginabile. Di aver tentato di sfiorarlo, e accarezzarlo come una delle tante cose belle di cui amava circondarsi: il suo sogno d’America.



mercoledì 13 giugno 2012

La regina di Tebe




La leggenda racconta che nei tempi lontani
in cui splendeva la magnifica
sovrana del regno di Tebe,
ci fu un giorno in cui il sovrano suo consorte
partì per una lunga guerra.
La regina chiamò a sé tutti gli architetti
e i maghi della sua città,
appena il sovrano partì,
e ordinò loro di costruire un labirinto
dal quale chi vi entrasse vivo
non potesse che uscirne morto,
e solo a colui che temeraria impresa avrebbe sconfitto,
sarebbe stato il suo compagno per una notte.
Di tale fascino era il labirinto
che molti varcarono la soglia
della prima delle sette porte
che in esso si perdevano.
Nessuno fece mai ritorno
e nessuno vide mai la regina,
fin quando un giorno, il re degli arabi
non le chiese udienza.
La regina gliela concesse.
Lo fece condurre innanzi alla prima porta
recitando la sua triste promessa.
Per sette giorni, vagò smarrito
nei meandri della mente
che confonde il tempo oltre che il passo.
Invocò il suo Dio, che gli mostrasse la via.
Il settimo giorno sfinito dal sonno
e dagli incubi più profondi,
varcò l’ultima delle sette porte.
In sogno gli venne il padre.

Si svegliò sapendo ciò che doveva fare.
Quando la regina s’ avvide della riuscita impresa,
lo accolse al suo cospetto
ed egli di poche parole così parlò:
“Avete costruito un labirinto di tale ingegno
che merita lode, ma nulla è al confronto
di quello che esiste nella mia terra.”
 

Fece ritorno alla sua città e riunì tutti i suoi capitani
in un esercito mai visto e ritornò a Tebe.
Devastò torri e palazzi, incendiò case.
Sterminò tutti i suoi abitanti, uno ad uno,
e fece prigioniera la Regina.
Su un veloce destriero nella notte,
legate le sue mani, la condusse nel deserto.
Attese silente l’alba.
“Questo è il mio labirinto, Regina di Tebe.
Colui che tutto vede e tutto discerne
ha voluto che ti mostrassi il mio,
dopo aver vinto il tuo.
Non ci sono scale, porte o muri.
Non ci sono prigioni.
Le sue pareti sono l’aria che ti circonda.” 

Poi le sciolse i lacci delle mani
e l’abbandonò al suo destino,
dove ella morì di fame e di sete senza mai ritrovarsi.
La Gloria sia con colui che non muore mai.




Liberamente ispirato al racconto I due Re e I due labirinti di Jorge Luis Borges